Der lange Sommer der Theorie: femminismo e rivoluzione nella Berlino di Irene von Alberti
Il Goethe-Institut, in collaborazione con Filmgalerie 451 e sotto il patrocinio del Cinema Modernissimo, presenta l’amatissimo appuntamento del Montagskino, una rassegna cinematografica in digitale che mette a disposizione gratuitamente venti capolavori del cinema tedesco fino al 30 giugno 2020. Oggi è il turno di Der lange Sommer der Theorie di Irene von Alberti.
“I tedeschi del lunedì” sono tornati a rinnovare l’emozione dell’incontro tra cinefili in questo post-pandemia in cui l’arte ancora fatica a rialzarsi. Dopo Roland Klick e Angela Schanelec, l’ultimo appuntamento è con il recente, riuscitissimo esperimento di Irene von Alberti, Der lange Sommer der Theorie, un gioiellino del cinema tedesco indipendente che sembra eludere ogni definizione, aprendo un filone cinematografico tutto nuovo, quasi come ai tempi della Scuola di Berlino.
Dopo il successo del 2005 alla Berlinale di Stadt als Beute, una trilogia ispirata alla pièce teatrale di René Pollesch, la regista, produttrice e sceneggiatrice tedesca, trionfa con una delle proposte più interessanti del Filmfest München del 2017.
La pellicola, ispirata all’omonimo libro di Philipp Felsch, si sviluppa in un fatiscente appartamento di Berlino vicino alla Stazione Centrale di Hauptbahnhof, un non-luogo romantico nella sua precarietà, in cui tre giovani artiste, Nola, Katja e Martina (interpretate rispettivamente da Julia Zange, Katja Weilandt e Martina Schöne-Radunski) si interrogano su politica, arte e cambiamento, mentre scrivono il copione delle loro vite sospese.
La città di Berlino si fa corpo, un gigantesco corpo di donna attraversato da quesiti irrisolti e rivolti sfacciatamente allo spettatore in un dialogo fluido, abbandonandolo, alla deriva, in un oceano di sconfinate possibilità: attraverso l’espediente metanarrativo del film nel film, Nola offre brillanti spunti di riflessione nel girare il suo documentario, regalando preziosi stralci di interviste con esperti di cultural studies, studi di genere, storici e drammaturghi.
È con Boris Groys, Carl Hegemann e Jutta Allmendinger che ci si interroga su come l’individuo possa attivamente rimodellare la realtà che abita, convertendo la riflessione solipsistica in urgenza di agire, in una zona di confine tra copione e improvvisazione, film e realtà.
Irene von Alberti ci rende così partecipi del cinema nel suo farsi: i suoi personaggi diventano un luogo di passaggio, come degli involucri abitati da domande aperte, riflessioni su utopie sessantottine, femminismo statale, anarchia, strategie comunicative e prove generali di rivoluzione tra teoria e pragmatismo.
Ma, più di tutto, in un momento storico in cui l’arte è ridotta a bene superfluo, deprezzata dalle logiche del capitale, le tre protagoniste fanno appello alla solidarietà sociale e a una ‘politica dell’empatia’, attraverso interrogativi che bucano lo schermo e spiazzano, quasi come in un teatro dell’assurdo.
Così l’appartamento condiviso dalle tre eroine, una simil-kommunalka abitata da artisti in bilico sul filo della precarietà, diventa il paradigma di una realtà urbana che lotta per il cambiamento ma ha perso di vista l’obiettivo (o forse non l’ha mai davvero messo a fuoco?).
Le protagoniste incarnano archetipi di donna contemporanea: “Chi sarei se avessi vissuto un’altra vita?”, ”Romanticismo o rivoluzione?”, “Può il cinema non creare illusione?”, “È politico un film che non stimola lo spettatore a reagire?” sono solo alcuni dei quesiti che attraversano le strade della città in tacchi a spillo ed eccentrici tailleur o vestendosi di pelle, borchie punk e capelli ossigenati, trasformando Berlino in una “giant lady”.
La regista ci vuole far sapere che ‘la lunga estate della teoria’ è finita, che il tramonto delle discussioni appassionate su ideologie astratte è al capolinea e che l’alba di una resistenza creativa è invece alle porte.
Ci ricorda che Brecht aveva ragione, che quella quarta parete va demolita, proprio come le mura dell’appartamento ad Hauptbahnhof, perché non c’è rivoluzione finché lo sguardo rimane intrappolato nell’illusione della finzione scenica.
Ma soprattutto la von Alberti ci regala un film di grande intelligenza e ambizione, che dimostra quanto le domande possano paradossalmente essere più educative delle risposte e quanto il film possa uscire dallo schermo ed entrare nella realtà anche dopo i titoli di coda.
Buona visione.
Francesca Eboli