Gink: maternità o ecologia?
Si chiama “green sex” e non si tratta di una modalità ecologica di fare l’amore. Stiamo parlando di una sessualità consapevolmente controllata, a impatto ambientale nullo poiché anti-riproduttiva, scelta in un momento storico in cui anche mettere al mondo un figlio può incidere significativamente sulla salute del pianeta.
E c’è chi l’ha resa manifesto di un movimento di sciopero delle nascite di portata globale: i Gink (“green inclination, no kids”).
Niente lenzuola 100% cotone organico o romanticismo a lume di candela per ammortizzare il consumo domestico. Nato come declinazione personale – e piuttosto radicale, aggiungerei – del più ampio concetto di impatto ambientale, il “green sex”, tout court, coniuga la filosofia ecologista classica ad una routine sessuale perentoriamente anticoncezionale: il miracolo della nascita viene negato da un puntuale, premeditato aborto, barattando una vita umana con una chance di sopravvivenza in più per Madre Terra.
Procreazione, infatti, secondo quest’ottica si traduce in consumo moltiplicato di risorse già allo stremo, riducendo così il feto ad una criminosa dose di anidride carbonica pronta ad essere emessa nell’atmosfera una volta lasciato l’utero materno.
A sostenerla sono i Ginks, i nuovi eroi ambientali che hanno abbracciato la scelta – senza dubbio discutibile – di un futuro kids-free, mossi dall’inamovibile principio che non esista decisione più audace per la salvaguardia planetaria che ponderare coscienziosamente se e quanti figli biologici mettere al mondo. Una sorta di versione 2.0 dei Dink (‘double income, no kids’), quelli degli anni ’90 che rifiutavano i figli per godere senza sconti di un benessere consumistico libero da responsabilità genitoriali. Questa volta però con un tocco di “ecoscienza”.
A iniziare il movimento è stata Lisa Hymas nel lontano 2010, giornalista americana alle cui idee hanno aderito successivamente Demographie Responsable in Francia e BirthStrike in Inghilterra, con un recente revival anche in Italia, insieme ai Fridays For Future.
Ma passiamo ai numeri. Perché per quanto radicale possa risultare ai più, esistono dati scientifici condivisi a dar credibilità, soprattutto nel mondo occidentale, a questa frangia estremista di ambientalismo: secondo uno studio dell’Università di Phoenix, America e Europa consumerebbero quattro volte qualsiasi altra area del mondo abitata e non sarebbe sufficiente nemmeno uno stile di vita ineccepibilmente ecosostenibile per compensare i danni collaterali di un individuo messo al mondo insieme alle sue emissioni di CO2.
Non basterebbe infatti neppure la scelta del nascituro di seguire una dieta vegana, di ridurre i consumi giornalieri al minimo sindacale o di rinunciare ai mezzi di trasporto più inquinanti, come aerei e auto. I danni sarebbero arginabili solo contenendo in modo significativo questa folla che abita il mondo, che ha già sforato abbondantemente la quota massima di 4,5 miliardi giudicata sostenibile per le risorse attualmente a disposizione.
In quest’ottica, paradossalmente, sarebbe meno deleteria una coppia senza figli che si goda viaggi aerei intercontinentali, che scelga una dieta ad alto tasso di carne e che sia del tutto estranea ad una zero-waste routine, piuttosto che un’altra ligia alla parsimonia ma cedevole al desiderio di lasciare una traccia nel tempo attraverso la prole.
Così dipinto/a, il ritratto di paladino/a della causa ambientalista sembrerebbe coincidere con quello di Carrie Bradshaw: proprio lei, l’icona di Sex and the City appena atterrata ad Abu Dhabi vestendo capi tutt’altro che cruelty-free, figlia di un materialismo ostentato, devota solo alla religione dello shopping compulsivo e del junk food. E che, nonostante le pecche sopracitate, nell’ottica Gink rientrerebbe di diritto nell’olimpo dell’eco-friendly per la sola, audace scelta di non mettere al mondo figli, a dispetto di qualsiasi altra donna che abbia desiderato e abbracciato il ruolo di madre.
Altra causa perorata dai Gink è: davvero può chiamarsi atto d’amore consegnare una creatura ad un mondo agonizzante, ad una realtà in cui la parola biodiversità ha perso ogni possibile senso? The Daily Mail ha riportato le interviste dei pionieri del movimento, secondo cui il comune desiderio di procreare deriverebbe da un egotismo drammaticamente radicato.
Nell’ottica performante e omologata del mondo occidentale, infatti, figliare rappresenta uno step imprescindibile nella realizzazione capitalistica del sé, che rientra nel più ampio concetto di ‘produttività’. Mettere al mondo un bambino è imperativo categorico di un’esistenza stereotipata che non ammette deviazioni di percorso, col fine nobilissimo di mantenere intatta la propria discendenza a spese del pianeta.
Così la scelta di una vita sessuale dai più scettici definita ‘monca’ – perché strappata al suo fine ultimo, quello riproduttivo – solleva quesiti cruciali e divide: è giusto privarsi della gioia incomparabile di procreare? Di lasciarsi abitare dalla vita e di restituirla al mondo? Non è forse un’overdose di vita la cura più efficace in questo deserto di morte e macerie? È sufficiente un fine più alto per rinunciare al progetto di un nucleo familiare allargato? E ancora: davvero la sessualità è pregna di senso solo quando riproduttiva? È ancora vista nella sua accezione obsoleta di sport sforna-bambini in cui le gioie della carne fanno solo da piacevole contorno?
Quando si parla di libertà individuale e di etica, ahimè, è sempre complesso schierarsi contro o a favore della bontà di scelte altrui. È più importante sollevare domande, sviscerare criticità e moltiplicare i punti di vista.
Invertire i trend di sovrappopolamento della Terra rinunciando alla maternità in età fertile avrebbe indubbiamente un effetto benefico sull’ecosistema, ma sarebbe auspicabile creare le condizioni affinché l’affaticamento del pianeta venga mitigato attraverso mezzi alternativi.
Sviluppare una coscienza ecologica ed educare i nostri figli agli stessi principi sarebbe già un passo importante per armonizzare i processi naturali di cui l’uomo è parte attiva, tagliando fuori rinunce eccessivamente drastiche, proprio come privarsi del miracolo di una vita che si schiude in un grembo materno.
Francesca Eboli