Pompei, il paradiso perduto
Pompei, con più di 3 milioni di turisti ogni anno e una moltitudine di appassionati, è una delle città più famose e affascinanti del mondo.
Per quasi duemila anni, le sue vittime sepolte hanno pianto di paura e disperazione, con gli occhi sbarrati nella cinerite.
A Pompei, per quasi duemila anni, la speranza è rimasta sospesa nell’istante patetico della disillusione, come un cencio premuto sulla bocca prima dell’ultima inalazione velenosa. Questi fuggiaschi immobili ci sussurrano la loro storia.
All’epoca dell’eruzione del Vesuvio, nel 79 d.C., Pompei è una colonia romana prospera, popolosa, organizzata ed efficiente. Conta una popolazione di almeno 13.000 abitanti (Nissen azzarda un 20.000) e rappresenta uno snodo commerciale cruciale tra Roma e il sud Italia.
Distese di campi fertili ed eleganti domus produttive circondano la cittadina, tutta basalto lavico e tufo. Le lunghe strade sono lavate dall’acqua delle fontane e battute dal vento. L’aria è salubre e mite.
Nel ventennio antecedente l’eruzione, Pompei è scossa da terremoti di bassa intensità, dei quali parla anche Plinio il Giovane in una lettera a Tacito:
precedettero [l’eruzione] i terremoti, poco preoccupanti poiché consueti in Campania
(praecesserat tremor terrae minus formidolosus, quia Campaniae solitus)
Plinio il Giovane, Epistola VI, 20.
Un terremoto particolarmente forte si era verificato solo il 5 febbraio del 62 d.C., con danni sia all’impianto idrico della città, sia agli edifici. Per questo motivo, nei successivi 17 anni, Pompei fu oggetto di ingenti ricostruzioni e rinnovamenti. La città divenne un centro lussureggiante, come dimostrano l’avvio della costruzione delle Terme Centrali, la ricostruzione ex novo del Tempio di Iside e la diffusione di opere ornamentali. (Marturano, A., Nappo, S. C., Varone, A., Trasformazioni territoriali legate all’eruzione del Vesuvio del 79 AD, 2001)
Tutti questi elementi sono sintetizzati nella Casa del banchiere Lucio Cecilio Giocondo (regio V, insula 1). L’attività di compravendita e speculazione immobiliare dopo il terremoto è dimostrata dall’archivio del banchiere, in 154 tavolette cerate; inoltre, due bassorilievi decorano il larario. Rappresentano il crollo del Tempio di Giove e un sacrificio agli Dei, provando sia la suggestione della popolazione, sia la rinnovata ricchezza delle abitazioni.
È su questa bella Pompei che nella notte del 24 agosto del 79 d.C. si abbatté un terremoto spaventoso, che annunciava definitivamente la tragedia. Ma pur conoscendo la natura vulcanica del Vesuvio, i Pompeiani ancora ignoravano il potenziale nesso tra i terremoti e il vulcano (Marturano, Nappo, Varone, 2001).
Lo stesso Plinio ammette a Tacito la sua “imprudentiam”. Racconta di essere uscito in cortile, lontano da muri e al riparo dai crolli, solo per mettersi a leggere “librum Titi Livii”.
All’alba Plinio scoprì finalmente la gravità delle scosse e si unì alla folla che fuggiva verso Porta Stabia.
È solo a questo punto che si sarebbe rotto il tappo magmatico che occludeva il cratere. L’epistola ci parla della grande nube nera, attraversata da lingue di fuoco, che si spandeva dalla cima del vulcano. La cenere, “densa caligo”, già investiva la città e la folla come un torrente (“nos, torrentis modo infusa terrae sequebatur”).
Già ora, con questa prima cenere, la calca procedeva accecata “come in luoghi chiusi con il lume spento”. È il motivo per cui anche Plinio dovette mettersi al riparo per non essere travolto: questo passaggio è ancora oggi fondamentale per ricostruire ciò che successe a coloro che non fuggirono e che, quindi, perirono nei giorni successivi.
Verso mezzogiorno la cenere si posò al suolo, ancora solo simile ad uno spesso manto di neve. I terremoti si affievolirono, “risplendette addirittura il sole” (“sol etiam effulsit”). Il peggio sembrava ormai passato. I Pompeiani trascorsero “una notte incerta e dubbiosa, tra speranza e paura” (“suspensam dubiamque noctem spe ac metu”), impegnati nella cura dei feriti.
Qui il racconto di Plinio si interrompe. La notizia della morte dello zio, avvenuta il 25 agosto, lo spinse finalmente a fuggire. Ci vengono ora in aiuto le informazioni ricavate dalle osservazioni stratigrafiche dei materiali eruttati.
Sappiamo che si depositò al suolo circa un metro e mezzo di pomici bianchi, seguito da un ulteriore metro di pomici grigi, entrambi non pericolosi e poco distruttivi.
Ignari del pericolo incombente, è verosimile che i Pompeiani reputassero saggio ripararsi in casa, dove però li sorprese una nuova nube di cenere “pressoché impalpabile, umida, calda, a forte velocità, radente il suolo e mista a gas venefici, che si depositò sul lapillo per un’altezza di 5 cm circa” (Nappo, S. C., Il rinvenimento delle vittime dell’eruzione del 79 d.C. nella Regio I Insula 22 a Pompei, 1992) e causò la morte di oltre un migliaio di persone, per asfissia o intossicazione, mentre queste tentavano di fuggire. La cenere, sottilissima, si è poi consolidata attorno alle vittime, aderendo ad ogni superficie e lasciandone, dopo la decomposizione dei materiali organici, un’impronta dettagliata.
Colmando con materiali come calce o gesso queste cavità, gli archeologi hanno ottenuto i cosiddetti “calchi di Pompei”: volti reali, immortalati nell’estrema disperazione o sospesi per sempre in una delicata rassegnazione.
In alcuni casi, come quello delle 9 vittime rinvenute nella regio I, insula 22, l’utilizzo di miscele particolarmente viscose ha permesso risultati straordinari e commoventi, come quello che mostra il tentativo di protezione di un uomo verso una donna incinta, “rimasti abbracciati nel momento dell’agonia, con il primo che tenta un ultimo disperato tentativo di proteggere l’altra stendendo sul volto il lembo del proprio pallio” (Nappo, S. C., 1992).
Maria Ascolese