Manifesto in difesa del dialetto
«Non parlare in dialetto, sembri volgare!»
Non ditemi che non vi è mai successo.
Lo so che siete stati ripresi così almeno una volta e che, da allora,ci è voluto un po’ prima che vi passasse il timore di aprir bocca parlando la lingua “sbagliata”.
Ma cosa c’è di male nel dialetto, è davvero tanto scorretto usarlo?
La risposta è… lo scoprirete solo alla fine dell’articolo furbacchioni!
Mettete in discussione i pregiudizi che vi sono stati inculcati, perché sì, per la maggior parte, abbiamo a che fare con noiosi luoghi comuni. È incredibilmente triste come i pregiudizi stiano lì pronti in agguato, appena si tratta di una minoranza. Neanche le lingue lasciano in pace.
Pensate che io mi sono laureata proprio sul mio dialetto!
Che strano, durante tutto il periodo scolastico ti insegnano a non usarlo e poi ti ritrovi all’università a farne addirittura oggetto di tesi. Quando mi chiedevano in cosa mi laureassi ho ricevuto risposte del tipo: «ma come lettere, tante belle cose sull’italiano, proprio il dialetto. Che argomento è!».
Ecco lì ho capito che occorre fare chiarezza sulla questione.
La lingua italiana non è che un dialetto che ha avuto più successo. Storicamente deriva dal fiorentino del ‘300, cioè da una lingua volgare.
Quando l’impero romano crollò, portò con sé anche il latino classico. La lingua già in bilico nell’uso parlato, si frantumò di zona in zona con l’arrivo degli invasori barbarici. Così nacquero i volgari.
Si creò una situazione dicotomica: da un lato il latino persisteva nell’uso scritto e letterario, dall’altro il “volgo” parlava la propria lingua. Immaginate che confusione, considerando pure la grande varietà di volgari esistenti.
Il prestigio del latino era duro da sradicare. Lo stesso Petrarca, che deve la sua fama alle poesie volgari, se ne vergognava come nugae “poesiole”, impegnandosi a scrivere opere in latino.
Se alcuni letterati, non ne volevano sapere di aprire le porte della loro torre d’avorio all’innovazione linguistica, altri si ponevano il problema di un volgare comune e legittimato. Nacque un dibattito accesso che si protrasse per secoli: la questione della lingua.
Ve la faccio il più breve possibile.
Prese avvio con il De Vulgari eloquentia di Dante, opera in cui si cercava il volgare illustre degno di poter essere usato in ambito culturale. Passati in rassegna i vari dialetti, giunse alla conclusione che nessuno fosse naturalmente adatto,per cui andava creato in maniera deduttiva.
Diciamo che propose una koinè dialettale su base toscana, ponendo le basi per la corrente dominante all’interno della questione.
Il principale promotore fu Pietro Bembo che propose a modello il fiorentino trecentesco dei grandi letterati: si dovevano imitare Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa.
Il primo vero fondatore della lingua fu Alessandro Manzoni che “risciacquò i panni in Arno” con la quarantana dei Promessi sposi e altri saggi, stabilendo l’uso del fiorentino a lui contemporaneo.
Le basi per l’unificazione linguistica erano state poste, mancava solo l’unificazione politica per renderla effettiva.
Tuttavia, anche quando nacque il Regno d’Italia, il cambiamento non fu immediato. L’italiano era parlato da una ristretta fascia alfabetizzata della popolazione.
Per favorire l’apprendimento della lingua unitaria si avviarono una serie di politiche di repressione e divieto, culminate durante il governo fascista. I fattori realmente determinanti nell’unificazione linguistica furono la scuola e i mezzi di comunicazione.
Attualmente possiamo dire che il processo è giunto a termine con successo, il che ovviamente è un bene, ma il terrorismo nei confronti delle altre varietà, rischia di farle scomparire per sempre.
La ricchezza linguistica dell’Italia è una delle caratteristiche distintive del nostro paese. Non possiamo perderle. Sono la nostra storia, le nostre radici.
La nostra lingua ufficiale ha vissuto la stessa discriminazione e difficoltà.
Il fatto che le altre varietà non siano state la prima scelta, non significa che sono inferiori, il fatto che continuiamo a parlarle, non compromette il corretto uso dell’italiano.
Il termine dialetto deriva dal greco dialektos che significava dapprima “colloquio, conversazione”, poi si è specializzato ad indicare la lingua di un determinato popolo. Nel significato stesso non c’è un intento diminutivo. Sono tutte lingue. Il discrimine sta nei diversi ambiti d’uso.
«I vostri natii dialetti vi costituiscono cittadini delle sole vostre città; il dialetto toscano appreso da voi, ricevuto, abbracciato, vi fa cittadini d’Italia» scriveva Anton Maria Salvini nel 1724.
Chiaramente non facciamo bella figura se in un contesto formale, come un colloquio di lavoro o un esame, parliamo o scriviamo in dialetto. C’è una lingua ufficiale e nazionale creata a posta, che tutti dobbiamo sapere correttamente.
Eppure, possiamo imparare e parlare tutte le lingue del mondo, perché non i dialetti? Perché non servono a livello internazionale? E infatti, non dobbiamo mica usarli in parlamento, ma nella nostra località, con gli amici, i nonni… non c’è nulla di sbagliato, nulla di volgare. Il dialetto nei contesti informali ci può stare.
Se vogliamo dirla tutta, anche quando pensiamo di parlare un italiano impeccabile, molto probabilmente non è così. Tra italiano e dialetto non c’è una separazione netta, ma esistono varietà intermedie: la koinè dialettale e l’italiano regionale che è «la vera realtà parlata dell’italiano[…] si può anzi dire che l’italiano parlato è sempre regionale (o locale)» Mengaldo 1994. Senza contare i numerosi dialettalismi entrati nella lingua standard, di cui non abbiamo consapevolezza: pizza o panettone ne sono un esempio.
Per fortuna ci sono dei fattori di resistenza che salvano queste preziose varietà. Esistono leggi nazionali e regionali a tutela e a promozione dei dialetti, soprattutto nelle regioni a statuto speciale dove è molto sentita la tradizione al punto da insegnarli nelle scuole. Questa non sarebbe una cattiva idea da estendere a tutto il territorio nazionale.
Il dialetto è oggi usato anche come marchio di riconoscimento e di distinzione, con funzione ludico-espressiva o gergale: sia tra i giovani, sia tra gruppi sociali d’elite, sia nella produzione artistica.
Da Eduardo De Filippo, Scarpetta, Di Giacomo a De Andrè, Pino Daniele e oggi Liberato. Nella cinematografia: dal neorealismo a Troisi e Totò. Nella letteratura: dal verismo alla Ferrante.
A proposito di Napoli, ricordiamo che è stata classificata una lingua a tutti gli effetti e patrimonio UNESCO.
Adesso amici lettori sapete come controbattere agli odiosi perfettini che non sanno quel che dicono, letteralmente. Siete linguisti? Fatemi sentire il vostro italiano impeccabile! Ah no? E allor zitt.
Giusy D’Elia
Vedi anche: La nuova questione della lingua: il napoletano inclusivo