Il fenomeno Cobra Kai: cari anni ’80, vi amiamo!
Gli anni ’80 ci mancano, anche se noi millenials li abbiamo vissuti dalla patina glamour e cult degli anni ’90.
Ci mancano, anche se non li abbiamo mai vissuti in prima persona. L’eco di The Karate Kid, Ritorno al futuro, dei Goonies e La storia infinita si percepisce con potenza ancora oggi.
Per questo, non potevamo perderci il nuovo guilty pleasure di Netflix: Cobra Kai.
Il sequel di Karate Kid, ambientato in un’America molto americana, ma anche figlia delle scoperte culturali degli anni ’10 del 2000 come il gender inclusive e la mascolinità tossica, è quel tipo di revival inaspettato, spiazzante, inimmaginabile.
Non avremmo mai pensato di rivedere Ralph Macchio, a 58 anni, nei panni del karateka Daniel LaRusso (a noi, molto più affettuosamente, conosciuto come Daniel-san). Mai avremmo pensato di rivederlo sfidare il suo nemico giurato, il bullo perfetto del cinema americano degli anni Ottanta: il biondissimo William Zabka nei panni di Johnny Lawrence. Quasi troppo bello per essere vero, ai nostri occhi nerd, innamorati di quelle storie di crescita, cambiamento, confronto, di bulli e scazzottate per bellissime ragazze bionde con i lineamenti delicati di Elizabeth Shue (in Karate Kid, nella parte di Ali) che sembravano darci un senso di bello e di giusto. Erano tempi diversi, più semplici, quelli in cui l’adolescenza era il periodo della vita in cui scoprire la differenza tra bene e male, tra pulito e sporco, tra onesto e disonesto. Il bene era bene puro, in cui il male aveva poco spazio, mentre il male appariva addolcito da un background, una spiegazione, una storia di vita vissuta. Ci sembrava quasi impossibile, credere nell’esistenza e nel valore di un male, anche, puro. E come non riuscivamo a vedere questo, ci sfuggivano anche le molte zone grigie alle quali abbiamo dovuto abituarci nel tempo, per adattarci alla nostra epoca attuale, in cui i confini sono nebulosi, complessi, labili.
L’America degli anni Ottanta, e di The Karate Kid, voleva farci dimenticare che esiste la vecchiaia, la malattia, la morte, la povertà. Non voleva che l’essere umano si arrendesse ai suoi limiti intrinsechi, che lottasse contro la sua natura fragile, impressionabile. Potevamo essere tutti eroi, negli anni Ottanta.
Cobra Kai, dal suo presupposto di partenza – ovvero di assumere il punto di vista del bullo Lawrence invece che dell’eroe Daniel – ci sovverte gli stereotipi e racconta una storia molto contemporanea, lontana da tutto quell’ottimismo.
Johnny, svariati decenni dopo il suo incontro di karate con Daniel, è un fallito ubriacone che non è in grado di superare la sua sconfitta adolescenziale, che vive nell’ombra di Daniel e della sua vita apparentemente perfetta. Daniel, dal canto suo, ha provato disperatamente a tenere vivo il sogno della famiglia ideale, l’illusione del vincente, ma è vittima delle incombenze quotidiane come ogni comune mortale in età adulta. La sua famiglia non è perfetta, il meraviglioso, memorabile Maestro Miyagi (un compianto Pat Morita, sempre vivo nei nostri cuori di geeks) forse non gli ha insegnato tutto quello che era necessario sapere, o forse Daniel crescendo si è allontanato lentamente da quegli insegnamenti e adesso ha perso la retta via. Fatto sta che il ruolo di buono e di cattivo inizia ad appartenere, come in uno scambio o in un palleggio, prima ad un karateka e poi all’altro, sfuggendo alle etichette e ai pregiudizi del pubblico. L’affascinante dinamica si arricchisce di sfumature quando alla rivalità tra i due – ormai ben più che maturi – protagonisti si aggiungono i giovani personaggi di contorno, i nuovi karate kids. Sia Johnny che Daniel credono fermamente di dover insegnare le arti marziali, e le filosofie di vita che esse veicolano, a giovani ragazzi vittime di bullismo, in difficoltà, fragili. Diventare forti è lo scopo finale, che sia attraverso il metodo aggressivo “no mercy” del Cobra Kai o di “usare il karate solo per difendersi” del Miyagi-Do.
Aspettando la terza stagione, sempre in streaming su Netflix a partire dal 2021, possiamo giungere alla conclusione che, finora, nessuno dei due sensei è riuscito nel proprio intento, avendo solo creato competizione e violenza tra le due – se così possiamo definire – squadre. Il messaggio, qui, è molto profondo, molto forte: credere troppo in sé stessi è pericoloso, illusorio ed ingannevole. In perfetta antitesi con il sogno americano che con il suo “credi in te stesso e potrai ottenere tutto ciò che vuoi e meriti” implica una totale fiducia nella forza di volontà personale, Cobra Kai sfida se stesso e la sua premessa iniziale. Niente è certo, nemmeno il successo, se non si è in grado di dubitare costantemente di se stessi, se ci si convince di essere grandi e forti senza riflettere sul proprio animo, sulle sue fragilità e i suoi cambiamenti.
Un telefilm amaro, divertentissimo e pieno di rimandi e riferimenti ad uno dei cult più importanti della storia del cinema contemporaneo. Assolutamente da vedere.
Buon bingewatching!
Sveva Di Palma
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