Torre Annunziata e il suo giornalista: breve riflessione sui giovani e sul peso della verità
A 35 anni dalla violenta scomparsa del giornalista d’inchiesta Giancarlo Siani, la città vesuviana di Torre Annunziata, tragico scenario del suo assassinio, si ritrova ancora a sopravvivere in prima linea nella trincea della lotta alla criminalità organizzata.
Tra i protagonisti di questa incessante e sotterranea battaglia, le nuove generazioni, figlie di quei padri e di quelle madri che hanno assistito al tradimento epocale di un sogno collettivo: la verità.
Cosa significa per un millennial torrese nato a ridosso del XXI secolo ritrovarsi a ricordare, ogni maledetto 23 settembre, l’importanza di una vita recisa troppo presto, tradita nel suo tentativo di difendere la libertà civile attraverso l’arma immortale della scrittura, dell’indagine e della testimonianza giornalistica, ovvero quella di Giancarlo Siani, giovane reporter nell’Italia postmoderna degli anni Ottanta?
La risposta è tanto scontata quanto difficile da ammettere senza che le si accompagni un oneroso senso di responsabilità civile: un fardello intellettuale.
Che diventa estremamente più difficile da celare o ignorare se lo si associa a un’altra condizione, l’appartenenza alla città di Torre Annunziata e il forte legame affettivo e familiare che continua a intercorrere con il proprio territorio anche quando si tende ad allontanarsi da esso, e anzi arriva a rafforzarsi e a caricarsi di nuovi significati.
Anche solo camminando per le strade antiche e per i vicoli storici dell’antico insediamento marittimo vesuviano, è possibile avvertire, nei silenzi quasi funerari che interrompono il continuo vociare della vita nel ventre oplontino, il peso, la tensione di una battaglia taciuta eppure ancora viva, sotterranea e insieme evidente; quella alla criminalità organizzata.
Associazionismo mafioso; due parole che poste una di seguito all’altra accompagneranno la formazione educativa e civile dei bambini e dei ragazzi torresi, incombendo incessantemente nella loro vita sociale come un monito e insieme uno sprone alla rivalsa. Il motore della storica Mehari di Siani si è ormai spento all’unisono con il suo giovane cuore, eppure qualcosa ha continuato ancora a vibrare nelle altrettanto giovani menti che a lui hanno avuto la fortuna di sopravvivere.
Tutti si aspettavano che prima o poi il giornalista avrebbe pagato a caro prezzo il peso delle sue parole, scagliate come sassi nudi e aguzzi sui volti di chi alla verità ha preferito la collusione (e dunque il profitto a scapito di uno sviluppo territoriale già tremendamente compromesso); tuttavia, l’omicidio di Siani, forse più incisivamente di altri eventi tragici collegati alle attività camorristiche sul territorio vesuviano, ha costituito agli occhi dei cittadini di Torre Annunziata la lacerazione definitiva allo “squarcio nel cielo di carta” sulla loro immobile realtà politica e civile.
Forse la giovanissima età del reporter napoletano, forse l’indistricabile legame dello stesso alla città oplontina, scenario perenne delle sue inchieste e delle sue ricerche sul campo, hanno contribuito a rendere la figura di Siani un simbolo testimoniale da tramandare alle nuove generazioni, con l’impegno di rinnovare costantemente la memoria del suo esempio giornalistico attraverso una attiva e concreta azione militante. Il nome di Giancarlo, nei decenni successivi alla sua scomparsa, non si è limitato a essere sciorinato sulle targhe degli istituti scolastici, delle strutture di ricezione pubblica, delle strade e dei giardini: è al contrario stato eretto a insegna sotto la quale accogliere le speranze e le necessità di lotta alla criminalità organizzata dei figli del nuovo millennio, testimoni diretti e indiretti della disperazione di quei padri che a suo tempo si sono sentiti inermi di fronte all’abbrutimento dell’impegno civile, della ricerca della verità.
Un vero giornalista, proprio come un bambino che con incoscienza tenta in tutti i modi di difendere il suo simile, non dovrebbe mai accettare di starsene fermo e zitto dinanzi all’ingiustizia, esplicita o meno, a meno che a impedirgli fisicamente di parlare non sia la violenza a sangue freddo, unica lingua conosciuta e padroneggiata dalla delinquenza mafiosa.
Ed è forse proprio questo l’insegnamento maggiore che le istituzioni locali hanno voluto trarre da uno degli omicidi più efferati della storia della mafia campana, e che al contempo hanno tentato incessantemente di impartire alle nuove generazioni di alunni torresi, futuri lavoratori, padri, madri e cittadini attivi all’interno di una già difficile realtà civile: non aver mai paura di aprir bocca, nemmeno qualora mani più grandi delle tue dovessero provare a tenertela chiusa.
Alessia Santelia