Carmelo Bene: io contro tutti
Considerato da alcuni come il “massacratore di testi” e da altri come uno dei migliori attori del Novecento.
Chi è Carmelo Bene e perché è così significato il suo contributo per l’arte?
Bene nasce nel 1937 a Campi Salentina dove tra gli ulivi secolari, il vento del sud, il barocco salentino e la cucina mediterranea trascorre la sua infanzia.
È tra la fabbrica di tabacco gestita dai genitori, l’istruzione cattolica e una cultura fortemente legata alla terra e alle origini, che si forma e cresce un bambino sensibile, timido, introverso e taciturno.
Abbandonata la Puglia si trasferisce a Roma dove inizia la facoltà di Giurisprudenza per volontà dei genitori. Lo stesso anno si iscrive all’Accademia Sharoff dove studia ed impara ad adottare il metodo Stanislavkij, basato sull’approfondimento psicologico e la ricerca di affinità tra il mondo interiore del personaggio e quello dell’attore.
Impara a esternare le emozioni interiori attraverso la loro interpretazione e rielaborazione a livello intimo.
Nel 1957 si iscrive all’Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio D’amico”, all’interno della quale Bene costruisce un rapporto conflittuale con gli insegnati, i quali adottano un metodo classico rispetto a quelli dell’Accademia Sharoff:
“il metodo per risvegliare i sentimenti era l’accademia Sharoff, quello per addormentarli la Silvio D’Amico.”
Dal 1959, anno in cui a soli ventidue anni esordisce in teatro con Caligola di Albert Camus per la regina di Alberto Ruggiero, in poi la sua vita viene contrassegnata da un’intensa attività artistica, dando forma e sostanza a decine di spettacoli teatrali, ma anche libri, film e dischi.
Attore, filosofo, poeta, interprete, critico: Bene si è sempre definito un genio, perché il suo agire artistico è la manifestazione di una necessità, di un sentimento più profondo che non riesce a contenere.
Presupposto e fondamento del pensiero beniano è la continua lotta alla drammaturgia borghese, a quel naturalismo ed a quella visione classica del teatro di testo o “teatro del già detto” in cui gli attori ripetono a memoria le parole senza creatività, interpreti senza valore. Sono dunque questi i motivi che lo conducono a una drastica riconsiderazione e rielaborazione del linguaggio e delle forme comunicative, attraverso la manipolazione tecnica del significante spesso fraintesa dalla critica.
L’azione artistica di Bene distrugge l’Io a favore di un teatro del soggetto-attore, libero dai limiti e dai modi del teatro stesso. Divine una “macchina attoriale”, Artefice del tutto: autore, regista, scenografo, costumista e attore.
Il grande attore si sveste delle sue umane capacità per indossare una veste amplificata sia sonora che visiva. La voce della “macchina attoriale” non è mera amplificazione ma è estensione del ventaglio timbrico e tonale che ingloba tutto l’apparato. Il punto non è possedere un corpo ma essere corpo.
Un altro pilastro della “macchina attoriale” è dato dalla rielaborazione del testo, punto fondamentale di tutta la sua critica, in cui viene massacrato in virtù di una manipolazione del senso. La scelta di trasformare le parti dialogate in forma di monologo sono la conseguenza della perdita di senso del dialogo e di direzione che vengono sostituite dalla veemenza delle emozioni. Bene sostiene che è inutile cercare il senso, il significato o il messaggio poiché si è sempre in balia dei significanti.
“Io mi occupo (e – purtroppo o per fortuna – si occupano di me) solo dei significanti, i significati li lascio ai significati. […] Noi siamo nel linguaggio e il linguaggio crea dei guasti; anzi è fatto solo di buchi neri, di guasti. “Codesto solo – dice l’Eusebio nazionale, cioè Eugenio Montale, però traducendo pari pari Nietzsche – oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. E questo si può dire. Chi dice d’esserci è coglione due volte: primo perché si ritiene Io, secondo perché è convinto di dire; è coglione una terza volta perché è convinto di dire quel che pensa, perché crede che quel che pensa non sian significanti, ma sian significati, e che dipendano da lui, ma Lacan ha insegnato: “il significato è un sasso in bocca al significante.”
Più volte Bene, durante il corso della sua esistenza, si è trovato di fronte alla stoltezza della critica incapace di comprendere la complessità del suo pensiero. Memorabile è la prima delle due puntate del Maurizio Costanzo Show, registrate rispettivamente nel 1994 e nel 1995, in cui l’attore si cimenta in un “io contro tutti” capace di raggiungere un livello di argomentazione intessuto di riferimenti filosofici e letterari, tale per cui giornalisti come Roberto d’Agostino, Mariella Menegoni, Luigi Lunari e tanti altri rimangono incapaci di coglierne la profondità.
È il 1994 e Carmelo Bene dopo cinque anni lontano dai riflettori, per motivi di salute, entra nel salotto del MCS vestito di blu e nero, si siede sulla poltrona, si accende una sigaretta ed esordisce:
“È con infinita agape, molto più che schopenhaueriana, che ho compreso, senza per questo immedesimarmi, di essere di fronte a una platea di morti ”
L’intervista si prolunga per circa due ore intense, durante la quale succede di tutto. La prima interazione dell’ospite avviene con Costanzo, il quale fin da subito cerca di rassicurare il pubblico di fronte all’enfant terrible, ovvero dal genio dai modi bruschi e provocatori di cui Bene si veste. L’attore è consapevole del fatto di essere in un contesto non pre-disposto per l’ascolto e la comprensione di tematiche filosofiche di alto spessore, articolate complessamente all’interno di un discorso sull’estetica, sulla morale e il gusto adottate al teatro e all’arte.
Cita Aristotele, Nietzsche, Deleuze, Derrida, Lacan, Foucault dichiarando apertamente, e con coraggio anticonformistico, il proprio insanabile distacco culturale dalla massa stipata all’interno dei “loculi domestici”. Bene con veemenza parla del linguaggio e del suo potere che va ben oltre ed al di là del soggetto e della volontà.
“È ora di cominciare a capire, a prendere confidenza con le parole. Non dico con la Parola, non col Verbo, ma con le parole; invece il linguaggio vi fotte. Vi trafora. Vi trapassa e voi non ve ne accorgete”
La maestosità del pensiero dell’attore e filosofo pugliese tutt’oggi rimane un contributo della cultura all’italiana, infatti tra i primi a rendergli omaggio Eugenio Montale, Ennio Flaiano, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Gli stessi Pierre Klossowski e Gilles Deleuze, con i quali collaborò, scrissero alcuni saggi sul modo di fare teatro dell’artista italiano.
Infine, curioso è come un teatro così incomprensibile abbiamo avuto un grande successo popolare. Il linguaggio adottato è comprensibile su un piano d’ascolto diverso, essendo tutto affidato ai significanti e non al senso o al significato. Dunque, come succede per la musica, tutto diviene fruibile, scorrevole, agevole e comprensibile anche da persone che parlano lingue diverse. Insomma, affinché si possa godere al meglio dell’artista, bisogna svincolarsi dall’idea della cultura irraggiungibile. Non sono le citazioni di grosso spessore ad arricchire il contenuto, quanto riuscire a percepire il rumore delle emozioni, quell’elemento che rende gli essere umani tutti uguali.
Marika Micoli
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