Chi è L’assassino di Enrico Scala?
Tranquilli, non è morto nessuno!
La casa editrice napoletana Rogiosi editore ha di recente pubblicato un libro di racconti intitolato: Il tempo fermo. Racconti da casa primavera 2020.
La Rogiosi ha avuto l’idea di coinvolgere e di intrattenere i propri lettori, proponendo loro di esprimersi attraverso un racconto a tema libero che, una volta migliorata la situazione, sarebbe stato inserito in una raccolta.
Tra questi c’è Enrico Scala, un talentuoso giovane ischitano, neolaureato in Filologia moderna.
Il titolo stesso della raccolta è esplicativo: durante il lockdown il mondo esterno si è immobilizzato in un eterno presente senza via d’uscita, come se le lancette dell’orologio si fossero fermate, catapultandoci nel remake di Paris qui dort.
Erano pochi i modi per resistere, svagare e preservare quel briciolo di razionalità e di pazienza che ci erano rimasti. Per fortuna, scrivere ha sempre un effetto terapeutico.
Ampia ed entusiastica è stata l’adesione all’iniziativa che ha visto partecipare persino bambini. Gli autori selezionati sono stati 36. Alcuni già avvezzi alla penna, altri felici scoperte, tutti hanno dato il meglio di sé nella scrittura, con una testimonianza della realtà o con una completa evasione da essa.
Appartiene alla seconda categoria il racconto di cui vi voglio parlare.
S’intitola, appunto, L’assassino.
Il racconto comincia proprio all’insegna del tempo. Una sveglia suona, sono le 6.45 del mattino e siamo in una stanza da letto, dove siede a gambe incrociate un enigmatico uomo.
L’incipit in medias res ci immette immediatamente nello spazio domestico minuziosamente descritto, a differenza del protagonista, sul quale aleggia un alone di mistero che viene prolungato per quasi tutta la narrazione.
Il lettore-investigatore cerca di risolvere il mistero che si cela dietro al personaggio, ma rigo per rigo viene disatteso nelle speranze da un meccanismo ritardante che porterà allo scioglimento delle matasse solo verso la fine.
L’autore costruisce un climax ascendente e carico di suspence, in cui sin dall’inizio si è pervasi dalla sensazione che qualcosa di tragico stia per accadere. Questo escamotage invoglia ad una lettura tutta d’un fiato, voracemente curiosa.
Il linguaggio preciso, sofisticato ed efficace fornisce una vividezza e concretezza alle immagini tali da permetterci di configurarle davanti ai nostri occhi così come vengono descritte. Sembra di essere davanti a uno schermo cinematografico.
Si crea un transfert tra narratore e lettore, per cui riusciamo a guardare con i suoi occhi, come se fossimo lì e stessimo spiando il protagonista dalla finestra.
Il nostro uomo si chiama Ronald Hutchinson, è un killer a contratto, il migliore sulla piazza. Non sappiamo nulla sul suo passato se non che è un probabile veterano di guerra. A dire il vero, non conosciamo neppure il suo reale nome, dato che il mestiere che svolge lo rende un abitué di passaporti falsi.
Il ritratto che ne emerge è quello di un outcast, un relitto senza identità, dimenticato da Dio e dal mondo intero. Riecheggia il ricordo degli Ossi di seppia di Montale.
Che sia proprio questa condizione di isolamento ed estraneità il motivo della sua scelta? O è semplicemente una trasfigurazione simbolica della condizione dell’uomo moderno?
In alcuni passaggi riusciamo a sbirciare nella mente di Ronald, ad esempio quando viene spiegato come egli elucubri con perfezione maniacale ogni suo delitto, ragion per cui riesce sempre a farla franca.
In questa sua attenta pianificazione, fino all’ossessione, si scorge una figura ancora più complessa di quanto pensassimo, a tratti nevrotica. Ritorna l’inevitabile riflessione sull’uomo moderno che collega questa breve pièce alla tradizione europea novecentesca.
Il tentativo razionalistico di avere tutto sotto controllo (persino la vita altrui) sfocia in un delirio di onnipotenza che viene frustrato nel finale.
La Natura, leopardianamente madre matrigna, irrompe inaspettata sulla scena ricordandoci violentemente l’impotenza dell’uomo, granello nell’universo infinito. Nel momento esatto in cui l’assassino sta per mettere a segno il tiro e sembra già avere la certezza del successo, ecco un tonfo sordo dagli abissi dalla terra.
Un terremoto. La potenza bruta della terra uccide in un colpo l’infallibile killer.
Già, un finale davvero inaspettato che nulla avrebbe potuto far presagire. Ma d’altronde non è la parabola della vita stessa? Una successione di casi fortuiti e incontrollabili?
L’impassibilità dell’assassino è assoluta?
All’inizio del racconto, il freddo calcolatore mostra un accenno di pentimento, però questo è immediatamente soffocato dal fumo di sigaretta che, come un rito sacrale, lo purifica bruciando le “scorie della sua condizione umana”.
Pare non esserci speranza dunque, il processo di disumanizzazione è giunto a compimento… ma ciò che non fa l’uomo, fa la natura.
Si ripristina così l’ordine cosmico di tutte le cose, al di sopra del quale nessuno può osare elevarsi.
Personalmente, vi ho intravisto una possibile chiave di lettura della situazione che stiamo vivendo. Pensiamo di essere gli invincibili padroni del mondo, finché non arriva un imprevedibile fattore esterno a stravolgere i nostri piani e a ridimensionarci in tutta la nostra fragilità. Non c’è progresso tecnologico che tenga.
Lo scrittore sembra voler comunicare un’idea deterministica e fatalista dell’universo? O vuole ricondurci ad una dimensione di giustizia sociale, ridimensionando i peccati di hỳbris ?
Chiediamolo al diretto interessato che ci ha concesso un paio di domande.
Enrico Scala, da cosa trae spunto il tuo racconto?
«Chi ha letto il racconto sa che alla fine della narrazione l’assassino da cui trae origine il titolo non è un killer in carne e ossa, bensì un terremoto. Da ischitano posso dire che il terremoto è un’esperienza che ti segna, ti squarcia. Per quanto quello vissuto da noi nel 2017 non raggiunse un grado particolarmente alto della scala Richter – per fortuna – nessuno ha dimenticato il terrore provato in quei momenti, lo stato di perenne pericolo nelle settimane successive, l’ansia per sé, per i propri cari, la possibilità costante di vedere la propria casa crollare. Ischia purtroppo è una realtà particolarmente soggetta a fenomeni naturali di questo genere: Benedetto Croce perse a Casamicciola nel 1883 la sua famiglia in un violento terremoto. Con loro se ne andarono più di 2300 anime. Quando ho scritto questo racconto, ci ho visto un promemoria: bisogna vivere assecondando le nostre passioni, con la consapevolezza che non possiamo programmare tutto. Molte volte il caso e la natura giocano il ruolo più importante e su di loro possiamo ben poco».
Quali sono i significati nascosti nel testo?
«Nella mia semplicità di scrittore “d’occasione” e soprattutto attraverso la mia vicenda personale da lettore, ho capito che ciò che cerco in un testo è la capacità di spaziare con la mente oltre i confini di carta. Al di là della trama vera e propria, come ho detto prima, c’è il racconto dell’ineluttabilità e dell’imperscrutabilità della natura, la fredda e istantanea violenza del terremoto. Tuttavia, scrivendo, ho voluto trasmettere anche un altro significato: non è un caso che il falegname che il killer prova ad eliminare si chiami Joseph (Giuseppe, in italiano). È un po’ come se Hutchinson, senza nome, rappresenti “the dark side” della nostra umanità: sporca, avida, noncurante del prossimo, così piena di sé da credere di poter ergersi al di sopra di tutto, persino delle divinità. Al momento del gesto fatale però, la verità si impone: siamo solo una piccola parte di un tutto che ci stringe tra due dita».
Giusy D’Elia
Vedi anche: Social, fake news e politica: quando le notizie fanno i fatti