Lost in translation: gli idioms inglesi e l’arte dell’intraducibilità
Le espressioni idiomatiche sono il cuore pulsante di una lingua, un hotchpotch di cultura, dialetti e strambe dicerie capace di dare una coloritura espressiva – spesso intraducibile in altre lingue – al nostro modo di comunicare.
L’inglese, in particolare, vanta una collezione ricchissima di idioms, combinazioni lessicali che fregano anche i poliglotti più spavaldi, convinti di approcciarsi ad una lingua strutturalmente elementare – analitica, per usare un tecnicismo, perché priva di flessioni – e costretti invece ad arrendersi alla bizzarria inintelligibile di un “It’s a piece of cake” o “It’s raining cats and dogs”.
Ebbene sì, gli idioms rappresentano “the tricky part” del mondo anglofono, una fastidiosa categoria di espressioni bell’e fatte di cui non si può intuire il senso con una banale traduzione letterale, parola per parola. Per farla breve: o lo sai o non lo sai.
Interessante sicuro. Perché quante curiosità, storie inedite e falsi miti storpiati da un secolare passaparola si celano dietro ad ogni idiom che si rispetti! E quanto più è indecifrabile l’accostamento dei termini, tanto più astrarne il senso diventa una gustosa missione ermeneutica per ogni appassionato linguista degno di questo nome.
Ma ipotizziamo un worst-case scenario: reading comprehension agli scritti degli IELTS. Te ne ritrovi uno lì, al centro del paragrafo, nella parte calda del testo. Tutto il senso della lettura verte proprio intorno a quella combinazione astrusa di parole a cui proprio non riesci a dare un nome. E per quanto fervida possa essere la tua immaginazione o spiccato il tuo potere intuitivo, davanti ad un’espressione idiomatica sconosciuta non c’è speranza neanche per te, che riesci a switchare dall’italiano allo spagnolo allo swahili con la rapidità ineccepibile di un computer.
Quindi le possibilità sono tre: li puoi amare – dopo l’impeccabile spiegazione di un native speaker a portata di mano, se sei fortunato – odiare – nel 99% dei restanti casi – o puoi imparare ad apprezzarli gradualmente, familiarizzando con tutte le stratificazioni di senso, le trasformazioni diacroniche e le deformazioni dialettali varie ed eventuali.
In quest’articolo abbiamo optato per la terza strada – la più accidentata ma (guess what?) anche l’unica possibile se punti ad acquisire un ottimo livello di proficiency della lingua – analizzando alcune delle espressioni idiomatiche inglesi più curiose e più difficilmente traducibili.
“To chew the fat”: letteralmente traducibile come “masticare il grasso”, quest’espressione risalirebbe ad un’abitudine comune tra i nativi del Nord America (oltre a marinai e contadini inglesi), che erano soliti gustare il lardo del maiale – poiché in grado di fornire i nutrienti necessari durante lunghi viaggi – per “insaporire” momenti morti e oziose chiacchierate. Questo lento passatempo tutto denti e mascella sarebbe entrato di diritto nella dimensione rituale del gossip, cosicché il suo significato letterale venisse usato oggi metaforicamente per indicare il sano, frivolo spettegolare ad oltranza con amici.
“Close, but no cigar” sta per “ci sei andato molto vicino, ma non abbastanza”. L’espressione è diventata molto popolare negli Stati Uniti nella metà del ventesimo secolo e veniva utilizzata durante i festeggiamenti del carnevale, alle fiere o al luna park, quando qualcuno sfiorava la vittoria di un premio (solitamente una scatola di sigari). La prima comparsa nelle stampe risale al 1929, quando “close, but no cigar” fu il titolo sensazionalistico del Long Island Daily Press scelto per raccontare la sconfitta di Hugo Straub, arrivato secondo alle elezioni presidenziali. Oggi quest’idiom si usa in caso di traguardi mancati per un pelo, come modo più originale per dire “ritenta, alla prossima sarai più fortunato”.
“Down the rabbit hole” è sicuramente più intuitivo. Anzi, se sei fan di Tim Burton o del romanzo originale di Lewis Carroll non hai scuse, perché non può non venirti in mente il Bianconiglio di Alice in Wonderland. Parliamo proprio di quel buco nero lì, la tana in cui Alice sprofonda in caduta libera, per poi atterrare dopo svariate piroette in quel luogo surreale che i più ritengono frutto di un’esperienza allucinogena. Oggi quest’espressione si usa per indicare una situazione problematica, caotica o bizzarra da cui è difficile districarsi, oppure un viaggio mentale verso una dimensione stramba, intricata e lontana dalla realtà. Un esempio calzante è internet, per cui spendiamo ore e ore della nostra giornata, addentrandoci nei meandri del World Wide Web fino a perdere completamente cognizione spazio-temporale.
“To go cold turkey” non si riferisce agli avanzi del pranzo del Ringraziamento sulle tavole americane, ma, inspiegabilmente, a chi smette all’improvviso di assumere droghe o sostanze tossiche senza aiuti esterni o un processo graduale di rehab. Da qui espressioni comuni come “I had to quit drinking cold turkey”. Molti linguisti ritengono sia un modo di dire canadese, altri ne avrebbero associato la traduzione ad un altro idiom del diciannovesimo secolo (“talking turkey” che sta per “parlare in modo chiaro”), ma le sue origini sono ancora incerte e non esistono, ad ora, modi di dire equivalenti in altre lingue.
“The proof is in the pudding” è una deformazione dell’antico proverbio seicentesco “The proof of the pudding is in the eating”. In altre parole: non importa quanto elaborata sia la decorazione e la presentazione della pietanza, la prova che un pudding sia stato preparato a regola d’arte sta solo ed esclusivamente nell’assaggio. Una sorta di mix dei nostri “l’apparenza inganna”, “non è tutto oro quel che luccica” o “l’abito non fa il monaco”.
Da questa breve carrellata avrete capito che gli idioms son così. Un po’ come perle dai riflessi variopinti e la forma irregolare, incastonate tra le linee grigie di una prosa troppo ligia alle regole grammaticali e senza troppi svarioni lessicali. E non c’è Google Translate, WordReference o Duolingo che tenga. Perché le traduzioni lampo di un’app online, per quanto studiata per offrire un servizio rapido e senza sbavature, non è in grado di misurarsi con il background culturale così magmatico e cangiante che una lingua riesce a convertire in suoni ed inchiostro. Perché c’è tutto un universo incostante e polimorfo di metafore ed espressioni che mutano ad una velocità folle, senza che nessun vocabolario riesca a tenerne il passo.
Francesca Eboli
Vedi anche “Me ne frego”, ma non della lingua: le assurde italianizzazioni a opera del fascismo