“I dare you”: l’amore di Björk
La cantante e musicista islandese Björk è ormai un’icona consolidata della musica pop e art-pop.
Negli ultimi trent’anni è stata, in modo più o meno evidente e diretto, fonte di ispirazione per tutta una schiera di artisti dell’intrattenimento, dello spettacolo, del costume, della moda.
E se c’è qualcosa che resta di Björk dietro i costumi colorati, i producer ricercati, i sussurri e le grida, è una concezione di amore viscerale e totalizzante che si ripresenta in forme diverse in ogni testo e ogni canzone.
L’ultimo album, Utopia (2017), è un perfetto punto di partenza per questo articolo e per amare.
Dopo un divorzio terribile, la conclusione dolorosa di un’unione durata ben 13 anni con l’artista statunitense Matthew Barney, Björk ci aveva mostrato la sua ferita: un taglio netto sul petto. Vulnicura (2015) è stato l’album del dolore, del lutto, del disorientamento, ma non ha mai tradito la vera natura dell’artista. Già lasciava presagire, tra suoni sferzanti o funerei, una cauta fiducia nell’amore.
Quindi non sorprende che proprio quella ferita, quel vulnus profondo sul cuore, si trasformi in Utopia in “un passaggio (The Gate). Comprendi, anche meglio di prima (della rottura), che probabilmente era sempre stato lì. Ma ora diventa un varco, un modo per condividere energia benefica con chi ami” (intervista con Jefferson Hack).
La stessa forma della ferita è simbolica. Figure stilizzate che ricordano un grembo materno, una vagina, un utero, non sono rare nell’arte di Björk.
Vespertine, pubblicato nel 2001 e interamente dedicato all’amore per Barney, era carico di figure a metà tra un albero e un utero. L’album era una celebrazione dell’amore quasi come parte della natura stessa, alla stregua di un paesaggio invernale o di un fenomeno atmosferico. L’utero, già venti anni fa, poneva la donna-Björk in una dimensione creatrice resa possibile dall’amore.
Allo stesso modo, questa ferita aperta sul petto (che Björk stessa ricuce nel videoclip per Family, diretto da Andrew Huang) rappresenta un’occasione per guarire, per creare – “partorire”.
Com’è possibile capovolgere una rottura, una ferita, in qualcosa di intrinsecamente benefico? Ha senso se si osserva l’amore in una prospettiva più ampia e comprensiva, sollevandolo dalla contingenza di due (o più) persone definite – Björk, Matthew; me, te – per lasciarlo sgranchire in tutte le direzioni.
A giudicare dalle parole di Björk, è qualcosa che richiede molto coraggio.
C’è una vena di sfrontatezza e prepotenza nell’amore di Björk. Non c’è spazio per mezze misure, non c’è tempo per essere subliminali. “Sono stanca dei codardi / dicono che vogliono, ma non sanno gestire l’amore” lamenta in 5 years (Homogenic, 1997).
E non c’è altro modo di comunicare un amore così globale, disteso in tutte le direzioni e in tutta la materia, che ribolle come un vulcano e si insinua come un virus, se non con una schiettezza quasi infantile.
“Ti sfido a mostrarmi i palmi”: dammi passato, presente e futuro.
Maria Ascolese
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