La storia di Lee Miller, la donna che visse due volte
Da modella giovanissima di Vogue a brillante fotografa, fino a diventare corrispondente di guerra e l’unica donna al seguito delle truppe alleate.
Lee Miller è stata protagonista di primo piano ma anche personaggio defilato del suo tempo.
Una donna fuori dall’ordinario, autrice nel campo della fotografia di opere che meritano di essere collocate tra le esperienze visive più originali degli anni Trenta e Quaranta del Novecento.
Nata a Poughkeepsie, nello Stato di New York, nel 1907, fin da bambina condivide con il padre Theodore la passione per la fotografia. La piccola di casa, infatti, non si limita a fare da semplice modella per lui ma studia e ne apprende le tecniche fotografiche.
A soli sette anni subisce un abuso sessuale che la segnerà per sempre. Sulla vicenda cala un vergognoso velo di silenzio e di mistero. Non si appurerà mai il colpevole, di sicuro c’è che la piccola Lee contrae la gonorrea.
Trascorre l’adolescenza in solitudine fino a quando non si trasferisce a New York per studiare scenografia alla Art Students League. Ed è proprio in un giorno come tanti, tra le strade di Manhattan, che rischia di essere investita da un’auto ma a salvarla è un passante “particolare”: Condé Montrose Nast, editore della rivista di moda Vogue. Inizia così, per puro caso, la sua carriera di modella.
Una carriera che in poco tempo la porta a essere una delle più ricercate dai fotografi più in voga del momento fin quando non entrano in gioco gli assorbenti.
Sì, perché parlare di mestruazioni è complicato ancora oggi, ma nel 1927 era un assoluto tabù. E quando Lee Miller diventa la prima donna a prestare il suo volto alla campagna pubblicitaria di un marchio di tamponi, la sua carriera da modella nell’America bigotta degli anni Trenta è finita. Non una tragedia per una come lei.
«Preferisco fare una foto che essere una foto».
E per realizzare questo progetto non c’è posto migliore della Parigi di quel periodo. Si avvicina all’arte surrealista grazie al sodalizio sentimentale e professionale con Man Ray. Trascorre la vita a cercare sempre di migliorarsi e a combattere i pregiudizi verso una donna che fa un lavoro da uomo fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
«Mi sembra piuttosto stupido continuare a lavorare per una rivista frivola come Vogue, che può essere buona per il morale del Paese ma un inferno per il mio».
Dal 1939 al 1945 fa parte del London War Correspondents Corp e dal 1942 è l’unica corrispondente di guerra donna accreditata presso l’esercito degli Stati Uniti insieme a Margaret Bourke-White. Condé Nast le affida l’incarico di seguire la guerra in Europa. Una rarità tanto per una donna andare al fronte quanto per Vogue dar spazio a temi così lontani dalla propria linea editoriale.
Ma nulla è stato normale nella vita di Lee Miller, la donna che passò dai salotti della moda al fronte di guerra.
Imprime su pellicola il bombardamento di Londra, la battaglia di Normandia e la liberazione di Parigi. Assiste all’incontro tra l’Armata Rossa e l’esercito americano a Torgau e all’ingresso degli Alleati a Dachau.
È la prima americana a entrare in un lager il 30 aprile 1945. I soldati morti nei canali di scolo, i mucchi di cadaveri abbandonati, i treni che arrivavano carichi di condannati e i forni crematori con i resti dei corpi bruciati la segneranno terribilmente.
«Usare la macchina fotografica era quasi un sollievo. Interponeva una sottile barriera tra me e l’orrore che avevo di fronte».
Ma il ritorno ad una vita normale si rivelerà più traumatico del previsto. Ricomincia a occuparsi di celebrità e di moda per Vogue e questo non le basta. Non sopporta le frivolezze di quel mondo dopo essere stata testimone dei campi di sterminio e di tanta sofferenza. Soffre di disturbo-post traumatico da stress e si rifugia sempre più spesso nell’alcool.
Muore di cancro il 21 luglio 1977. La sua continua ricerca al miglioramento dovrebbe essere d’esempio per tutti. Lee Miller ha vissuto con estrema eleganza entrambe le facce della medaglia.
Disegno di Simone Passaro
Vedi anche: Il primo incubo di Dylan Dog