Lupo de Spechio: il napoletano come seconda lingua
“Non parlare in dialetto, sembri volgare”: quante volte ci è capitato di essere richiamati perché abbiamo preferito, in una determinata circostanza, esprimere un pensiero in dialetto e non in italiano?
Fortunatamente, oggi, la stigmatizzazione delle parlate regionali sta lentamente lasciando il posto ad una progressiva rivalutazione e celebrazione di queste ultime, grazie anche al loro ricchissimo contributo in ambito artistico, musicale e teatrale che ci ha reso famosi in tutto il mondo.
E proprio a proposito di questo vi racconto di qualcuno che, con qualche secolo di anticipo, si è reso conto del fascino e della versatilità del dialetto napoletano, e ne è rimasto colpito al punto tale da decidere di apprenderlo come seconda lingua: oggi vi narro di Lupo de Spechio.
Di Lupo si hanno poche notizie certe: nacque a Orihuela, nel regno di Valenza, dove studiò con passione il latino fino a comporne versi con estrema disinvoltura. La sua lingua materna era, senza dubbio, il catalano. Per renderci conto della periodizzazione storica, basti pensare che il 17 ottobre del 1438 si trovava presso Napoli, giorno in cui morì l’infante Pietro d’Aragona, colpito da una bombarda. Tornò nella città partenopea diversi anni dopo, nel 1468: fu in quest’anno che Lupo decise di cimentarsi nella sua prima opera in napoletano, la Summa, che voleva essere un pamphlet politico, celebrazione ed esposizione sulle famiglie reali aragonesi e siciliane, consolidando ulteriormente il rapporto tra la storiografia napoletana e quella iberica.
Il napoletano, per Lupo, doveva avere un prestigio che neanche i letterati napoletani dell’epoca gli riconoscevano: il modello di riferimento della tradizione poetica era quello toscano. La lingua della Summa è povera di polimorfismi se paragonata a quella dei colleghi napoletani, proprio perché questo dialetto, per Lupo, era stato appreso come seconda lingua anziché come lingua materna, la cui conoscenza è sempre più ricca e variata.
Sono diversi i fenomeni della Summa che sono riconducibili solo alle condizioni linguistiche del napoletano: abbiamo, per esempio, l’impiego di isso, gloriuso, joco, nui e vui, il verbo essere songo ed il verbo avere agio, ed altre forme come averria, potereno, volereno.
Come abbiamo già detto, l’opera è stata scritta nel 1468 da un autore catalano: un giurista che poco conosceva del napoletano fino al suo soggiorno nella città partenopea. Eppure, con grande curiosità e maestria, De Spechio si è dedicato alla stesura di un’esposizione storiografica – e non, dunque, una favola di poche pretese – in una lingua che era, a tutti gli effetti per l’autore, straniera.
Quello di Lupo è un esempio che potrebbe incoraggiare, ancora oggi, un cambiamento nel modo di vedere il dialetto. La società tende a disprezzare e stigmatizzare l’uso del dialetto; certo, il nostro Paese gode di una condizione di diglossia secondo la quale una lingua, e nella fattispecie l’italiano, viene riconosciuta come ufficiale ed unica ammissibile in determinati contesti (di fatto non ci è possibile, per quanto accattivante possa essere l’idea, discutere una tesi di laurea in dialetto); ma la diglossia stessa, per definizione, mette allo stesso tempo l’accento su una realtà impossibile da ignorare: la presenza di innumerevoli, meravigliosi dialetti locali, che per alcuni rappresentano ancora l’unica lingua conosciuta per comunicare.
Il dialetto non è una forma linguistica tipica del volgo, ma un vero e proprio linguaggio che non ha nulla da invidiare dal punto di vista fonetico, semantico e morfologico alle altre lingue naturali. Il dialetto non è altro che un codice che non è stato legalmente riconosciuto come ufficiale per un dato territorio, ma resta, come tutte le altre parlate regionali, un’impronta digitale, un mezzo identificativo, il collante di una comunità. Perché, parliamoci chiaro, Napoli senza il dialetto napoletano non avrebbe gli stessi colori, non godrebbe dello stesso fascino che molti si ostinano a negare, ma di cui parecchi, come successe a Lupo de Specchio secoli fa, rimangono rapiti.
Giovanna Alaia
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