Jacques Mehler: la lingua è la melodia della nostra infanzia
Avete presente il modo in cui ci si rivolge ai bambini di pochi mesi?
Quella che chiamiamo “vocina”, in gergo motherese, è quel modo di parlare caratterizzato da una prosodia esagerata, enfasi su certe sillabe o sulla parte finale delle frasi, dallo stile telegrafico.
In realtà, il metodo cantilenante e a tratti imbarazzante che utilizziamo, quasi senza rendercene conto, quando comunichiamo con i bambini, serve a ben poco.
I piccoli, in realtà, sono in grado di capire, analizzare e discriminare molto più di quanto immaginiamo, a partire da un tratto che potrebbe apparentemente sembrare irrilevante: i suoni familiari.
Jacques Mehler, psicologo spagnolo specializzato in acquisizione linguistica e scienze neurocognitive venuto a mancare a inizio 2020, è stato il primo a rendersi conto che i bambini, anche piccolissimi, scansionano le lingue e le classificano in base alla prosodia, ovvero l’insieme dei tratti sonori del linguaggio: l’intonazione, il ritmo, la durata, l’accento. Insomma, la musicalità del linguaggio rappresenta, per i bambini, un’impronta di riconoscimento della propria (futura) lingua materna.
Nel luglio 1998, in seguito ad un’osservazione in un reparto neonatale, Mehler ha dimostrato che i bambini dati alla luce da appena due giorni siano in grado di distinguere nettamente i suoni caratteristici della propria lingua materna. I soggetti in analisi sono stati sottoposti all’ascolto di tre determinati stimoli, quali parole o frasi nella lingua materna, pronunciate dal genitore; in seguito parole o frasi in lingua straniera, pronunciate dal genitore; infine, parole o frasi in lingua materna pronunciate da una voce estranea.
Se volessimo stilare una graduatoria seguendo l’ordine di preferenza del bambino, potremmo supporre che questi collochi al primo e secondo posto la voce della madre, prescindendo dalla lingua in utilizzo. Analizzando l’elettroencefalogramma rappresentante la risposta agli stimoli vocali dei bambini, tuttavia, è stato dimostrato che questi abbiano reagito positivamente in primis all’ascolto della voce materna che parlasse la sua lingua, ma anche che abbiano preferito, invece che l’ascolto di una lingua straniera da parte di una voce familiare, la voce estranea che parlasse la loro lingua materna. Dunque, l’impronta della fidata lingua materna, la quale viene riconosciuta già durante gli ultimi stadi di gravidanza, viene scavalcata dall’apprezzamento dei suoni della lingua (e non la voce) ascoltata per mesi e mesi, prima della nascita.
Secondo ulteriori analisi, i neonati, sebbene non capaci di distinguere nettamente le immagini, soffermano il loro sguardo non principalmente sugli occhi della propria madre, ma sulle sue labbra, focalizzando l’attenzione sui loro movimenti. È chiaro che per i bambini il parlato, e dunque la lingua, sia un fattore cruciale per l’orientamento e la conoscenza del mondo e delle persone che li circondano.
Sebbene la distinzione consapevole di voci e suoni sia possibile solo a partire dai due mesi in poi, è possibile affermare che, in appena due giorni di vita, il bambino sia capace di identificare e classificare una determinata configurazione di suoni, ritmi e intonazioni: ci troviamo ai primi stadi di un inconscio meccanismo di classificazione e analisi di quella che sarà la sua lingua materna.
I bambini erano i soggetti d’analisi preferiti da Mehler: un altro esame ha dimostrato che gli infanti di sette mesi, ben prima che articolino parole e sillabe, imparano tali parole memorizzando le sillabe iniziali e finali, ma non quelle intermedie: questo perché i bambini, già da piccoli, intuiscono che le sillabe iniziali e finali siano assai più regolari e frequenti delle sillabe intermedie.
Egli ha rivelato, inoltre, che i piccoli sono sensibili non solo alla frequenza statistica dei suoni delle parole, ma anche, a seconda della lingua materna, alle regolarità di struttura e alle loro combinazioni. La loro analisi comparativa dei dati dell’inglese, lo spagnolo, il basco e il catalano ha rivelato le straordinarie, precocissime capacità linguistiche.
È chiaro, dunque, che i bambini preferiscano affidarsi ai suoni familiari, a foni già sentiti, piuttosto che ai timbri vocalici. Questo risultato, apparentemente di scarsa importanza, ci mette in realtà di fronte ad una straordinaria scoperta: il linguaggio, e con esso tutti i tratti affini (i suoni, l’intonazione, il ritmo), è il mezzo attraverso il quale l’essere umano crea il primo legame con il mondo, e dunque con la realtà. Tutto ciò che lo circonda viene identificato e classificato secondo i suoni, e dunque, secondo la lingua che lo ha cullato, come una ninna nanna, per nove mesi.
Giovanna Alaia
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