Elephant: le adolescenze spezzate di Gus Van Sant
Il 20 aprile 1999, Eric Harris e Dylan Klebold, due studenti della Columbine High School, si introdussero, armati, nell’edificio scolastico, uccidendo dodici ragazzi, un insegnante e ferendone molti altri.
Alla fine, si tolsero la vita nella biblioteca della scuola. Ancora oggi non è ben chiaro quale sia il motivo, ma sappiamo cosa unisce tutti questi avvenimenti rituali.
Da questa tragica vicenda, che si riallaccia a un filone tristemente noto in America e che vede protagonisti, spesso, giovani studenti assassini, prende spunto “Elephant” (2003), una delle pellicole del regista statunitense Gus Van Sant, che adora mettere a fuoco le realtà vissute dagli adolescenti con i loro mondi frammentati e le loro peregrinazioni interiori.
Il titolo spiazzante allude al cosiddetto “elefante nella stanza” cioè a qualcosa che esiste, si mostra in tutta la sua grandezza, acuita dal piccolo spazio in cui si trova, ma di cui nessuno vuole accorgersi.
Gli spettatori fingono che non ci sia. Questa parabola dell’elefante la troviamo anche nella tradizione buddista secondo cui alcuni ciechi in una stanza toccando ed esaminando un elefante costruiscono le proprie verità scaturite dal contatto con una parte del suo corpo. A ognuno può sembrare qualcos’altro.
Questi due significati sono il punto nevralgico della vicenda attorno a cui ruotano le vite di alcuni adolescenti che ci è dato conoscere tramite lunghi piani sequenza che ci posizionano alle loro spalle come se fossimo, da un lato, le loro ombre indifese, dall’altro, come se loro fossero i nostri avatar che avanzano lungo i corridoi della scuola come in un videogioco viscerale.
Uno di loro, in particolare, ci mostra quell’universo che pullula di gruppetti e personalità diverse. Si tratta di John, l’iconico ragazzo biondo che indossa una t-shirt gialla. Egli rappresenta il punto di contatto tra tutti i personaggi che riusciamo a conoscere, compresi i due assassini, Eric e Alex.
Di tutta questa fauna scolastica, di questa giungla in cui bisogna sopravvivere ogni giorno, ci è dato un ritratto sommario, breve. I ragazzi mostrati attraverso pennellate veloci, impressioni e facili intuizioni, ci donano spunti di riflessione per cercare di farci un’idea di chi siano.
In realtà, al regista non interessa tanto farci conoscere ognuno di loro per dare forza al contesto e alle possibili emozioni. Egli non vuole delineare il singolo individuo quanto puntare alla pluralità delle voci messe in campo per tirarci tutti in ballo. Si tratta di un universo frammentato in cui non esiste una verità assoluta e Gus Van Sant non cerca in alcun modo di fornircene una semplice e totale.
Perché Eric e Alex sentono il bisogno di uccidere i loro coetanei? Perché si armano fino ai denti entrando nell’edificio e cambiando il destino di tutti durante quello che doveva essere un giorno qualsiasi di scuola?
Per l’assenza di figure genitoriali? Per una presunta non accettata omosessualità?
Per la difficile condizione adolescenziale abbrutita dal bullismo e dalla sensazione di non poter essere migliori?
Dal possesso semplice e normalizzato di armi da fuoco? Per tutti questi motivi e probabilmente anche per altri. Ma una cosa è sicura: se in America non fosse così semplice procurarsi delle armi da fuoco, i morti sarebbero stati molti meno. La questione spinosa continua a tormentare un paese che finge di non vedere quel dannato elefante nella stanza e che preferisce puntare il dito contro presunte mode, atteggiamenti infantili e musica rock.
Maria Cristiana Grimaldi
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