La socialità ai tempi della pandemia – Un nuovo sguardo d’insieme
In questo momento parole come “distanza” e “limite” hanno assunto un valore concreto e minaccioso, che mirano all’assetto sociale come gli Stati Uniti miravano nel 1955 al Vietnam.
Concetti come “socializzazione” e “socievolezza” vengono rimessi in discussione dalle circostanze.
All’animale sociale che è in noi viene chiesto di ridimensionare il modo di relazionarsi. Di fronte a vincoli e divieti ci pieghiamo impotenti sulla realtà.
In termini accademici la “socializzazione” è quel complesso processo attraverso il quale l’individuo diventa un essere sociale. Questo processo è composto da una moltitudine di fattori come norme sociali, giuridiche, esperienza, contesti, valori, etica, personalità etc., che compongono la complessità della relazione tra individui. La socializzazione è quel processo per cui si passa da essere biologico ad essere sociale, caratterizzato da uno specifico modello della realtà.
Dunque è possibile pensare che ogni cultura reagisca in modo differente rispetto allo stesso problema.
La “socialità” è l’attitudine di un soggetto a divenire essere sociale, intesa come una volontà del singolo che si manifesta in modo particolare. Esistono persone altamente socievoli, più o meno socievoli e solitarie. Nonostante questa divisione in pacchetti, in realtà non è mai possibile definire il livello di socialità di un soggetto.
A questi due termini se ne aggiunge un altro non di poco leggerezza argomentativa: il concetto di libertà. Dove e quando finisce la libertà?
Dunque contestualizzando i termini, la riflessione verte su quanto effettivamente questo momento di pandemia pesi sulla nostra socialità data da una parte dal suo processo e dall’altra dall’attributo di essere libera.
Se alla socialità, che è la volontà di ogni singolo di entrare in relazione con l’Altro, vengono riconsiderati e riformulati i termini di processo e di libertà, come si adatterà all’ambiente?
È opportuno sottolineare che il processo di socializzazione è composto principalmente da norme e consuetudine e queste si dividono in sociali e giuridiche. Nella visione sociologica e giurisprudenziale le due devono essere auspicabilmente in comunicazione. Una norma sociale dovrebbe ispirare, in modo o nell’altro, una norma giuridica. Ma quando la norma giuridica entra in vigore, scavalla la norma sociale.
Per cui, se le istituzioni modificano il piano sociale con il piano giuridico l’animale sociale libero cade di fronte all’ignoto.
Le misure adottate per gestire l’emergenza sanitaria negli ultimi mesi hanno realmente messo in crisi l’assetto sociale. L’essere umano in momenti di tranquillità è potenzialmente portato a dimenticare l’inevitabilità della vita. La realtà cambia, continuamente, nulla è statico e stabile. I meteoriti storici non sono le guerre o le rivoluzioni, perché fanno parte dell’agire umano e dunque sempre frutto di scelte. Quello che grava davvero sull’impotenza dell’umanità sono le catastrofi naturali, ovvero quando Madre Natura urla, si commuove, si arrabbia o brilla di felicità. Ci sentiamo tanto impotenti davanti ad un tramonto quanto ad uno tsunami.
A mio avviso, la pandemia rientra nel confine delle due cose. Da una parte si presenta come atto della natura, dall’altra grazie allo sviluppo umano è possibile controllarla. Ed è proprio qui che risiede la chiave del nuovo agire umano e quindi del processo di socializzazione. Il nuovo animale sociale, al quale è stato chiesto di limitare la propria libertà, può dare il suo contributo controllando la situazione. Il controllo che equivale all’equilibrio dato dalla consapevolezza, nasce prima di tutto dallo spirito di sopravvivenza. Dovremmo effettivamente rispolverare quell’istinto animale che abbiamo volutamente riposto nella scatola dei ricordi di fronte alle inesauribili comodità che la società ci mette a disposizione.
Quella stessa società che adesso piange la sua libertà. È complesso definire la libertà, in quanto già il termine in sé contiene il concetto di essere libero. Suppongo che se mai esistesse un confine alla libertà questo si manifesterebbe come il punto di incontro con l’altro. Questo punto di incontro si è effettivamente ingrandito da quando nel nostro vocabolario quotidiano è entrata in gioco la parola “distanza”. Ma la distanza è un confine labile. La distanza è fisica e concettuale. La distanza è oltrepassatile. La distanza è anche attesa.
Per cui ci troviamo forzatamente nei nostri salotti a riflettere su quello che si può fare.
Sta emergendo un nuovo spirito di sopravvivenza, che non possiamo non ascoltare. La solitudine è diventata un campo inesplorato dall’arrivo del social media, infatti uno dei dati riscontrati è proprio lo “stress sui social” dato dalla pandemia. La socialità si è spostata su Facebook piuttosto che Teams, però questo può essere un dato positivo se considerato come una spinta futura di maggiore socialità nell’ambiente. È la reintegrazione sociale che parte da quella personale. Se ai confini della nostra solitudine provassimo a rispolverare tutte quelle attitudini, capacità e consapevolezze che abitano mansuete dentro di noi, l’istinto alla socialità prenderà una nuova forma. Riemergeranno valori come solidarietà e socievolezza intesa come sguardo sull’insieme sociale collettivo. La globalizzazione e l’intercessione hanno gravato pesantemente sui rapporti sociali prima della pandemia, creando una distanza meta-comunicativa sul piano virtuale. Ora dovremmo cercare nella solitudine una nuova libertà e un nuovo sguardo verso l’altro ormai realmente distante.
Il riconoscimento di sé giova sempre per il riconoscimento dell’Altro. Dovremmo riappropriarci di quel sentimento di socialità che abbiamo un po’ perduto per rincontrarci domani nelle piazze a festeggiare.
Marika Micoli
In copertina: Quarto Stato (1898-1901) – Giuseppe Pellizza da Volpedo
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