L’uomo del labirinto: il vero animale da cacciare è l’essere umano
“La storia non finisce così, giusto?” – Toni Servillo e il suo iperbolico viaggio nell’inferno umano, nella mente malata di un uomo mascherato da coniglio.
L’uomo del labirinto è un film del 2019 diretto da Donato Carrisi e tratto dal suo omonimo libro.
Dopo La ragazza nella nebbia, lo scrittore di thriller, nei panni di regista, e l’indiscutibile interpretazione di Toni Servillo mostrano nuovamente il mistero e le paure ancestrali di ognuno di noi, con un film carico di situazioni intricate rese ansiogene dalle atmosfere cupe, quasi gotiche, e dai personaggi che sembrano sospesi nel sottosuolo dei ricordi e della vita interiore; quella che spaventa, quella vissuta nei gironi infernali di un mondo che ci rende soli con le nostre fobie e con i problemi più latenti, difficili da comprendere. Donato Carrisi ha raccontato che anni prima di avere la possibilità di dirigere Dustin Hoffman ne L‘uomo del labirinto, aveva scritto una sceneggiatura che gli era stata rifiutata, dicendogli che non era realizzabile proprio perché necessitava di Hoffman come protagonista. “Quando l’ho raccontato a Dustin” – ha spiegato Carrisi – “Mi ha suggerito di chiamarlo Dustino, che suona come Destino”. Interpretazione impeccabile, speculare a quella di Servillo. Due uomini con una vita destinata a soffocare in due mali differenti: uno nei torbidi meandri della psiche, l’altro nel cuore.
Bruno Genko, a differenza della ragazzina rapita dal serial killer del film, sembra aver abbandonato ogni paura, e questo perché sta per morire e lo sa. “Bruno Genko ha già un piede oltre il confine della vita” – ha affermato ancora Carrisi – “e può vedere cose che altri non possono vedere, per esempio può credere vero un uomo dalla testa di coniglio e, ovviamente, può permettersi di sfidare la propria morte.” Bruno ha una brutta cera, sempre sudato, l’andatura stanca mentre fuma le sue tante sigarette; il Dottor Green, un altro “figlio del buio”, un’altra mente malata e sadica, appare in splendida forma.
Egli non è il profiler degli investigatori, ma il mostro che tiene segregata la poliziottta da pochi giorni, facendole credere di essere Samantha, la ragazzina rapita all’inizio, e di stare lì da poco più di un anno. Ci sono allucinazioni indotte con delle droghe (come ad esempio aver avuto un figlio dal rapitore), in un macabro gioco che si ripete ogni volta che la donna si risveglia. In uno di questi risvegli, la poliziotta riesce ad avere sufficiente lucidità per capire chi è e dove si trova e che quello che sta vivendo è frutto di allucinazioni. Un altro antagonista, quello principale, è Bunny. Come ha raccontato Carrisi, per la maggior parte del film indossa una testa di coniglio. Il regista, evidentemente, ha voluto omaggiare i conigli del David Lynch di Inland Empire, e spiega le ragioni di una simile scelta: “Due conigli mi hanno terrorizzato nella mia infanzia, prima di tutto il Bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie. L’altro coniglio è l’Harvey dell’omonimo film con James Stewart. Harvey alla fine c’è e ne L’Uomo del Labirinto, c’è un coniglio che ha la funzione di un minotauro. Ammetto di aver fatto una cosa un po’ da matti”.
In tutto il film aleggia una forte inquietudine morale, il timore più grande del regista stesso: il labirinto, per lui, il luogo più claustrofobico che esista. Il labirinto dell’incoscio, il labirinto mostruoso di un gioco perverso e famelico, così minuziosamente pensato da rendere la finzione una vivida e scabrosa realtà: un gioco in cui non può esistere il game over per poter sopravvivere. Inoltre, c’è il tema del buio atavico presente nel labirinto, in cui la donna rapita cammina scalza e con un camice bianco;l’unico colore candido in mezzo alla densità di un nero che sembra risucchiare anche lo spettatore. Nel percorso del labirinto ci sono diverse porte, dietro alle quali si cela una paura differente. Tutti gli uomini chiudono a chiave le porte di ferro della paura dentro loro stessi, ma quando si aprono, tornano a farci visita come le fiere dell’inferno. Lo stesso Servillo, più che sembrare un vero e proprio personaggio, sembra essere un ingranaggio, un puzzle mancante che ci permette di entrare nel mondo interiore del regista, riflesso nei suoi personaggi. Un altro elemento interessante è la componente religiosa e quella speculare-esoterica all’interno del fumetto dove il protagonista è un coniglio di nome Bunny. Così l’immagine di un docile e tenero coniglio, non è altro che la rappresentazione del male, del diavolo, che ha completamente cambiato la vita di chi l’ha posseduto. Insomma, un thriller molto articolato che mira a disorientare chi guarda; infatti la verità sembra vicina, ma è solo una vana convizione, perché tutto cambia, tutto torna al punto interrogativo iniziale: chi è davvero quell’uomo con la testa di coniglio? Chi bisogna cacciare davvero? Per non parlare della fotografia e il tessuto sonoro così enfatici, plumbei, che affiancano i veri punti di forza di tutto il film: la versatilità e la naturalezza di Toni Servillo, l’interpretazione magistrale e inquietante di Valentina Bellé e la maestria di Dustin Hoffman nel ruolo di un personaggio dalla duplice personalità. Quella sua calma sopporifera, che quasi spaventa, ci inganna e ci rende vulnerabili.
“Vogliamo i tuoi ricordi, ne abbiamo bisogno ora”, così la memoria diviene l’espediente attraverso cui il gioco perverso ha sempre un nuovo inizio. Bunny, invece, è in gabbia, ma le nostre paure vivono libere.
Marianna Allocca
Vedi anche: Toni Servillo: il divo conquista la top ten del New York Times