Sei anni senza Pino e ho sete ancora di Mascalzone latino
Il 4 gennaio di sei anni fa se ne andava quel bluesman che ha segnato il panorama emotivo napoletano con le sue note funky e le tammurriate veraci che sanno di radici e di Ammerica.
Per ricordarlo, oggi, ripercorriamo quel viaggio al termine della canzone napoletana che è stato Ho sete ancora. 16 scrittori per Pino Daniele, una collezione di racconti liberamente ispirati alle canzoni di Pinù, edita da quei “carbonari-masanielli” di Iocisto.
L’idea è stata di Titti Marrone: intrecciare ricordi e fantasia in una lingua inventata per colmare quel maledetto vuoto lasciato da Pino Daniele. Una raccolta di parole e melodie perdute che, tra le appassionate penne di Maurizio Braucci, Peppe Lanzetta e Diego De Silva (tra i tanti), sa essere un ottimo balsamo all’appocundria di questo giorno disgraziato in cui tutti ci siamo sentiti un po’ orfani di napoletanità.
Ricordo bene quell’algida mattina di gennaio in cui dopo la surreale notizia il popolo napoletano ha ben pensato di esorcizzare il lutto con un rito oceanico e partecipe, intimo e spettacolare, che ha visto l’intera “nazione Partenope” raccogliersi nell’abbraccio del Plebiscito, nel seno reale della Basilica Pontificia di San Francesco di Paola. Io c’ero, e quel concerto indisciplinato non me lo scorderò finché campo: una cantata corale d’orgoglio e strazio che ha mobilitato una città intera.
Un atto d’amore sincrono e perfettamente concertato nella capitale italiana della disfunzionalità.
Ce ne parla Federico Vacalebre nell’introduzione alla raccolta, una dichiarazione d’amore di chi questa terra tufacea mai l’ha tradita, ma anche di quelle anime esuli che raccontano con disincanto lo splendore antico di un’era marchiata dal lazzaro felice. “Alfiere orgoglioso” del rinascimento napoletano, ha scritto lo spartito di una Vesuwave travolgente, che tra 99 Posse e Almamegretta ha saputo accogliere ed ibridare quel suo ritmo già meticcio fatto di anglonapoletano e dialetto purissimo.
Segue il ricordo carnale di un John Turturro grato per quel pomeriggio newyorkese speso a chiacchierare con il bluesman che, chitarra in braccio e groove latino, verseggia il corpo di Napoli in una formidabile miscellanea poetica. È lui che il regista statunitense ha scelto per accordare l’ultima melodia di Passione (2010), il docufilm musicale che racconta la patria dei vic’ stritt’ in un conturbante tripudio di suoni, tinte forti ed aneddoti secolari.
Ma ecco che iniziano gli omaggi creativi di scrittori, giornalisti e drammaturghi…
Maurizio Braucci esordisce con Bella ‘Mbriana, una tenera ballad di tumulti adolescenziali e “summertime sadness” divisa tra il litorale liberty viareggino, la cartolina di una patinata Posillipo e l’estate stracciona dei Quartieri Spagnoli. Protagonista è Lello, antieroe romantico che l’ex fidanzata ha lasciato per un ‘chiattillo’ della Napoli bene, e che tenta di lenire le crepe d’adolescente innamorato e tradito con la cassetta “appezzottata” di Bella ‘Mbriana. L’ultima fatica di quel cantautore lazzarone, tanto in voga nell’estate italiana dell’81, diventa così traduzione musicale di uno stato d’animo intraducibile, una resistenza made in sud di cui “tutti i giovani come lui, dai Quartieri Spagnoli a Fuorigrotta, avevano imparato i testi a memoria, rallegrandosi di riconoscersi in quel dialetto stretto, infarcito di parlese, dello slang dei musicisti dei ghetti e del porto di Napoli, che allora aveva braccia e cosce aperte agli americani e al blues”.
Antonella Cilento con Terra mia, delizioso racconto di un furto dai risvolti sentimentali, in cui il dialetto scostumato di due furfanti – Appucundria, donnaiolo affetto da nefrite cronica, e ‘Nziria, fisicato “a babà, crocchè e morzilli fritti” – si mischia con una prosa asciutta e poetante che rende colori, sapori e odori vividissimi. Epilogo? I propositi delinquenti dei due macchiettistici rapinatori si sciolgono nell’ascolto commosso di Terra mia sul giradischi dell’appartamento svaligiato, perché “Su vinile è n’ata cosa”.
È la volta di Maurizio de Giovanni con Je so’ pazz – La cravatta di Fabio, una breve storia di redenzione adolescenziale post-fermento sessantottino. La rivolta silenziosa di un giovane intrappolato dalle leggi non scritte della dittatura paterna si consuma nell’androne dell’università, in una piovosa mattina in Via Partenope. Qui “il figlio del Professore, lo spauracchio di ogni studente, triste piccolo ragazzo vestito da sessantenne” trova il coraggio di improvvisare i versi urticanti di Pino Daniele, quell’artista trasgressivo dal verbo schietto e colorito, che canta “ E vogl’essere chi vogl’ io, ascite fora d’a casa mia”.
Diego De Silva si perde invece nelle labirintiche stanze della memoria in Sulo pe’ parlà – Diversamente rockstar,un viaggio intimo e chiassoso nella tournée di Vai mo’. Artigiano di una musica che non è mai solo musica, ma espressione di un sentimento, traduzione melodica di una modalità di stare al mondo propria al napoletano e a nessun altro. Ma il momento topico del concerto arriva al secondo pezzo, quando in risposta ad uno sfottò dalle prime file, Daniele risponde: “Oh, guaglio’, chistu ccà dice ca tengo ‘na bella panza. Eh! E allora? A me me piace ‘e magna’. A te nun te piace ‘e magna’?”. Un’orgogliosa rivendicazione dell’appetito che sbeffeggia il culto del bell’apparire e nega il divismo.
Peppe Lanzetta fantastico su Donna Cuncetta, “grande contrabbandiera” dalla chioma corvina come la lava vesuviana, simile a “Palermo Normanna, a Catania raggio di fuoco, a Monreale con i suoi ori, a Cefalù con le sue bellezze e il suo duomo senza San Gennaro”. Lei, dal sangue “di scirocco, africano e americano, cubano e argentino” che non si piegò alle lusinghe del santo patrono. “E sì, squaglia Gennà, smamma, sparisci facciagialluta”, e lui la prese alla lettera e sciolse il suo di sangue…
E poi c’è chi ha tentato di strapparsi Napoli dalla pelle e dal cuore per non lasciarsi contaminare dalla sua anarchia, come ci racconta Brunella Schisa in Napule è. Lei che è fuggita nella Capitale ma ha cresciuto Andrea con il santino di Maradona attaccato ai piedi del letto, perché “un figlio col pibe de oro avrebbe fatto la fortuna della famiglia”. Lei che non si è persa neanche mezzo atto delle commedie di Eduardo al San Ferdinando ma durante il trasloco, per economizzare gli spazi, ha lasciato fuori i meravigliosi volumi Einaudi della Cantata dei giorni dispari. Lei che ha sterilizzato la sua parlata di qualsiasi inflessione residua ma in macchina ascolta solo Murolo, Carosone e, ovviamente, Pino Daniele; lei che “perché su Napoli si possono scrivere soltanto banalità?” e subito dopo “mannaggia a me che ancora mi commuovo” davanti allo spettacolo cromatico del Borgo Marinari al crepuscolo.
E come darle torto, eh Pinù?
Francesca Eboli
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