The Undoing: “the bloody truth” nello show HBO di Susanne Bier
Erano mesi che si attendeva l’arrivo di The Undoing, chiacchieratissima miniserie HBO scritta da David E. Kelly (ideatore di Big Little Lies) e tratta dal romanzo di Jean Hanff Korelitz You Should Have Known.
Una storia da binge-watching compulsivo starring Nicole Kidman e Hugh Grant, che porta alta la bandiera tricolore con quell’aliena talentuosa che è la venticinquenne bolognese Matilda De Angelis, personaggio chiave del thriller psicologico firmato dal premio Oscar Susanne Bier.
“Who killed Elena Alves?” è la domanda ossessionante che per sei settimane è rimbalzata da un polo all’altro dei media americani intrappolando tre milioni di spettatori in una spirale patologica di sospetti. Una specie di toto killer social, una caccia all’assassino poi impazzata in UK fino ad approdare in Italia su Sky Atlantic e NowTV, sia in versione doppiata che in lingua originale con sottotitoli.
Dopo i 3 Golden Globe alla miniserie The Night Manager (2016) e la statuetta d’oro al miglior film straniero con In un mondo migliore (2011), la regista danese ritorna sul piccolo schermo con un cast indovinatissimo, il glam patinato dell’upper class newyorkese e un brutale crimine da risolvere, “a mistery to unravel”, come recita il sottotitolo.
Ci troviamo in un’algida Manhattan, ai piedi di Central Park, dove le vite blasonate della famiglia Fraser scorrono placide e felici, come in quegli spot farlocchi della Mulino Bianco coi sorrisi aperti e il ban ai bronci. Grace (Nicole Kidman), viso d’alabastro e riccioli di rame, è una psicoterapeuta con un dottorato ad Harvard e una capacità paranormale di sciogliere in parole le emotività disfunzionali dei suoi clienti. Jonathan (Hugh Grant), oncologo infantile empatico, devoto al mestiere, è l’infaticabile supereroe che lotta giorno e notte per allungare la vita ai suoi piccoli pazienti dalle teste nude e i giorni contati. E poi c’è Henry (Noah Jupe), tenero ritratto di figlio prodigio legato visceralmente a quel papà impeccabile, che suona il violino e studia alla Reardon, scuola d’élite con rate proibitive. Manca solo il cane di razza e il quadretto familiare è confezionato.
Bene, ora dimenticate tutto e immaginate che l’ingresso in punta di piedi di una donna latina dell’East Harlem distrugga per sempre la vita degli intoccabili Fraser, rivelando le crepe di una perfezione sinistramente fittizia, costruita su una torbida trama di bugie e adulteri. Elena Alves (Matilda De Angelis) è giovane madre ed esuberante artista con una carica erotica dai risvolti inquietanti. Eva peccatrice che si muove provocatoriamente nelle morbide curve del suo corpo tra le occhiate giudicanti dell’high society newyorkese: allatta il figlio mostrando disinvoltamente il seno a una tavolata iperposh, bazzica nuda e nonchalant lo spogliatoio della palestra che frequenta Grace e arriva a strappare persino un bacio saffico alla Kidman nella famosa scena dell’ascensore. Il giorno dopo il gala di beneficenza, la notizia del crudo assassinio Alves che diventerà una bomba mediatica snocciolata in sei episodi, infarciti di rivelazioni, suspense e cliffhanger.
Il rovinoso disfacimento ce lo anticipava già il titolo, e se la trama non brilla per originalità (ricordiamoci Unfaithful – Amore infedeleo Attrazione Fatale, thriller cult degli anni ’80), Susanne Bier è comunque brava nella resa registica di questa crime story: scava nella coscienza proteiforme dei personaggi, dosa sapientemente gli indizi e dipana i fili del mistero in un modo che tiene incollati allo schermo, nella spasmodica attesa che il nome dell’assassino salti fuori.
Il vagabondare non stop e quasi patologico di Grace tra le strade della Grande Mela racconta i percorsi ossessivi battuti da una mente errante: quella dei personaggi coinvolti in questa allucinogena gogna mediatica e quella dello spettatore, che non smette di passare in rassegna tutto il cast per scovare dettagli incriminanti, per dissotterrare trame insabbiate o minuzie insospettabili.
Ma l’interpretazione inopinabile di un cast scelto superbamente saprà intrattenervi in questa gustosa caccia alle streghe: Donald Sutherland con la sua cupa introspezione di rispettabile ereditiere e padre di famiglia, Ismael Cruz Cordova col suo viso sofferto e maledetto di vedovo straziato dal dolore e Noma Dumezweni perfetta nei panni di Haley Fitzgerald, avvocatessa esperta dalla dialettica compassata.
E poi c’è Grant che merita una menzione a parte, regalandoci la performance forse più stratificata e chiaroscurale in quarant’anni di carriera: un ritratto spigoloso e caleidoscopico che sfuma dalle tinte tenui di padre, marito e professionista ineccepibile all’espressionismo inquietante di sadico narcisista dal passato traumatico e la morale subdola.
Delude il finale (senza fare spoiler) troppo frettoloso e approssimativo – oltre che spiacevolmente inatteso – se confrontato con la precisione certosina della regia Bier negli episodi precedenti.
Perciò, se avete intenzione di immergervi in questa bulimica visione seriale, abbracciate serenamente l’idea di convivere col dubbio fino all’ultimo ciak e rassegnatevi al fatto che anche l’ipotesi più argutamente congegnata sarà sistematicamente smontata dal successivo episodio. Ma ne varrà la pena (finale sbrigativo a parte).
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