Intervista a Cinzia Sciuto: tra informazione culturale e blasfemia
Nel 2021 possiamo ancora chiudere gli occhi di fronte alla censura?
La blasfemia è reato o libertà di opinione?
Cinzia Sciuto, autrice di un libro pubblicato da Feltrinelli e giornalista culturale, mi ha parlato proprio di questo.
In un’intervista che si è trasformata in un viaggio dall’informazione alla cultura, dai diritti umani alla blasfemia.
Come ti sei avvicinata al mondo del giornalismo? Cosa ti ha fatto scattare l’idea di intraprendere un mestiere che attualmente sembra un mondo chiuso in cui è difficile entrare, soprattutto per noi under 20?
«In realtà è stata una casualità, avevo tante strade di fronte e mi si è aperta questa. Ma ho sempre lavorato nel mondo del giornalismo culturale, che è molto diverso dal giornalismo che si occupa di cronaca, anche quella politica. Il nostro è un lavoro intellettuale, purtroppo grandemente sottovalutato nel nostro Paese».
Per quanto riguarda, invece, il modo di fare informazione, questo è completamente cambiato negli ultimi anni. Noi giovani sotto i 25 anni acquistiamo giornali cartacei, ma alla fine riceviamo la maggior parte delle notizie tramite social. Tu cosa ne pensi?
«Anche noi “anziani”!».
Risponde prontamente, e non posso non scoppiare in una risata.
«Battute a parte, è una realtà che anch’io vivo quotidianamente: è sui social che mi imbatto nella maggior parte delle notizie, che poi vado ad approfondire sui giornali. E questo cambia la natura non solo dei giornali cartacei, ma anche dei giornali online, perché, per fare un esempio, la stessa impaginazione perde di senso.
Si discute su ciò che si dovrebbe mettere in apertura, ma alla fine magari il pezzo che gira più sui social è quello che sta in fondo alla pagina».
Poi c’è sempre un pericolo, parlo ad esempio del click baiting, che ormai è un fenomeno radicato anche in testate giornalistiche molto importanti. Ed è subdolo, perché non ci consente di filtrare le informazioni.
«Sì, è molto subdolo e chiama in causa le normative deontologiche della categoria, che dovrebbero essere aggiornate, proprio alla luce dei fenomeni tipici del giornalismo online».
Ora parliamo del tuo libro, raccontaci di cosa tratta.
«Il libro si intitola Non c’è fede che tenga, la prima edizione è uscita nel 2018, la seconda riveduta nel 2020 e da pochi mesi è uscito anche in tedesco. La tesi che sostengo è che di fronte alla violazione dei diritti umani non ci può essere alcuna giustificazione sotto forma di tradizione, cultura o ideologia».
Quindi parliamo anche di religione?
«Sì, anche di religione. Il libro è nato osservando quello che accadeva in particolare nel femminismo: era come se i diritti delle donne si fermassero di fronte ad alcune tradizioni religiose, specialmente quando si trattava di religioni “degli altri”. I movimenti femministi, e in generale i movimenti per i diritti umani, non hanno mai avuto problemi a sfidare e mettere in discussione la cultura religiosa nella quale noi siamo cresciuti, quella cattolica, mentre quando ci troviamo di fronte ad elementi altrettanto patriarcali, che però si rifanno ad altre religioni, alziamo le mani, come se i diritti fossero relativi.
Ho scritto il libro proprio contro questo relativismo culturale».
Ora vorrei parlare dell’evento Arti Censurate, che si terrà a settembre al PAN di Napoli. Secondo te cosa vedremo in questo festival?
«Ah, non ne ho la minima idea. Di sicuro ne vedremo delle belle!
Ho accettato con entusiasmo l’invito a partecipare perché la censura della libertà di espressione è una delle forme più recenti con cui i fondamentalismi religiosi stanno mettendo piede in Europa. L’appello alla tutela della sensibilità religiosa spesso diventa una scusa per mettere a tacere le critiche e le espressioni artistiche più sovversive o sarcastiche. Penso che sia pericolosissimo accettare questa forma di censura, che non di rado prende la forma ancora più subdola dell’autocensura.
Lo spirito del festival è quello di ribadire che la libertà di espressione non può avere limiti dettati dalla sensibilità. Ovviamente esistono leggi sulla diffamazione, che tutelano gli individui se vengono attribuiti loro fatti falsi. Se io dico che Tizio è un ladro, ma Tizio non è un ladro, è diffamazione, e non siamo nel campo della libertà di opinione.
Ma se io dico che ciò che sostiene Tizio è inaccettabile in un paese democratico, allora devo essere libero di affermarlo nelle forme che mi sono congeniali. Per me possono essere gli articoli o i saggi, per un’artista un quadro e per i vignettisti di Charlie Hebdo la satira».
Quindi dovremmo essere tutti un po’ blasfemi?
«Certo! Viva la blasfemia!
Sempre battute a parte, dobbiamo fare attenzione, perché la blasfemia è una forma di censura molto potente, perché si appella ad un ordine religioso, divino, che incute paura, perché è altro rispetto a noi. Quando la censura si applica in nome di una divinità, la situazione diventa particolarmente più pesante. Ci sono paesi in cui si viene imprigionati per blasfemia. Quest’accusa viene strumentalizzata, si arriva ad accusare di blasfemia qualunque critica alle religioni, qualunque critica al potere politico, che in molti di questi paesi coincide con la religione, e anche lo stesso ateismo è considerato una forma di blasfemia. Parliamo di uno strumento politico potentissimo, sfruttato per mettere a tacere le voci critiche del mondo».
Angela Guardascione
Vedi anche: Iniziativa laica: la libertà di scegliere non è peccato