Marco Zurzolo a Sant’Anna dei Lombardi, una magica fusione di passioni
La 268, ormai, è diventata la mia road, stamattina mi porterà a Sant’Anna dei Lombardi, dove incontreremo Marco Zurzolo.
Il freddo mi abbraccia, alla mia sinistra mi accompagna il Vesuvio imbiancato, incorniciato dall’azzurro del cielo e accarezzato dal raggio di sole. Brilla, negli occhi, questa immagine.
Risuona in macchina quel ritmo che mi accompagna da sempre.
Il nostro Jazz, il nostro blues, il nostro sound.
Quello napoletano.
“Non raccogli ciò che semini ma ciò che curi”.
C. M. Schulz
L’emozione mi stringe alla gola, venire in queste strade riesce sempre a far emergere quella bambina sognante che, ad occhi spalancati, scruta il luccichio dell’arte.
Ripercorro i miei anni in un solo battito di ciglia, entro tremante a Sant’Anna dei Lombardi, dove, vengo accolta dalla gentilezza, dall’amore condiviso per la città, dalla passione per l’arte.
Arriva Marco Zurzolo e ci deliziano con una visita guidata della chiesa accompagnata dalle note melanconiche del suo sax.
Entriamo nella sala conferenze, immersi dagli affreschi del Vasari.
Marco chiacchera con noi, sorride, scherza e, dopo averci suonato il magnifico pezzo dedicato al fratello, Rino, posso fargli qualche domanda.
La domanda che si fa sempre ad un’artista è: com’è nata questa passione?
«Questa passione nasce da ragazzino, la casa mia era frequentata di musicisti molto importanti, grazie ai miei fratelli. Noi abitavamo piazzetta Giusso, a Bagnoli, una piazzetta aristocratica tenuta da un marchese, si può vedere la mia abitazione attraversando i binari della cumana. Perciò, quando iniziarono i primi movimenti musicali con Eugenio ed Eduardo Bennato, Bagnoli divenne un posto fantastico di grandi artisti e musicisti, ci fu il primo capellone e per me fu molto significativo.
Mio fratello Rino suonava a nove anni il basso e, con mio fratello, Vito, fecero una band. Dunque, spinto ad emulare Rino, cresce sempre di più la voglia di suonare, poi vedevo loro suonare e recitare grandi artisti e, di conseguenza, volevo appartenere anche io a quel mondo».
Mi aggancio a questa riflessione per chiederti come è stato il tuo rapporto con Pino e Rino, è stato uno dei motivi per cui sei passato dal flauto al sax?
«Ti faccio una confessione, sono passato dal flauto al sax perché non acchiappavo femmine, ridiamo, ma in realtà amo il suono del sax.
Per quanto riguarda Rino, lui era un musicista straordinario, ha sposato la musica, trascorreva tutto il giorno suonando il contrabbasso o suonando il basso, per riposarsi. Forse non è stato nemmeno un padre eccezionale perché lui viveva di musica classica, jazz, rock, aveva un mondo tutto suo, fatto di musica.
Quando ho conosciuto Pino faceva il musicista non il cantante, poi iniziò a portare dei pezzi suoi, ma nessuno ci credeva perché lui era brutto, grasso e con gli occhiali enormi, nessuno gli dava credito. Erano però pezzi meravigliosi, uno in particolare parlava di un bambino che lavorava molto e un giorno la mamma, andando a svegliarlo, si rese conto che non si svegliò più. Questi sono registrati in una cassetta volati via insieme a Rino e Pino, io avrei tanto voluto risentire le emozioni di quella volta ma non si trovano più.
Poi, Pino, grazie al sostegno di un altro ragazzo, il suo primo editore, Claudio Pioggi, ebbe un grande successo. Io dico sempre che cantare le canzoni di Pino non è difficile, è inutile, è meglio non farlo, perché lui è talmente unico, lui non era un cantante, la sua voce funzionava per le sue canzoni».
La tua musica si deve vivere, sentire sulla pelle, facendosi trasportare dalle note, da chi ti fai ispirare?
«I miei idoli sono stati degli americani, come Davis, Parker e Coltrane, ma anche gli italiani come Lina Sastri e Rino Murolo. Noi abbiamo una tradizione conosciuta in tutto il mondo e noi dobbiamo prendere coscienza del suono che ha la nostra città.
Ci troviamo nella cultura dell’arte, Napoli è una città aristocratica, bisogna sentire il suono, purtroppo non si vuole vedere, non si vuole sentire. Io mi sento uno scugnizzo con il sassofono, mi sento come un pittore che cerca di prendere tutti i colori, prendere quanti più generi possibili e metterli nella mia musica.»
Una musica unica che racconta la sua Napoli e proprio per questo lavori con scrittori napoletani, ci vuoi parlare di queste collaborazioni?
«Io lavoro con Maurizio De Giovanni, un altro innamorato della città, lui dice una cosa molto seria, ovvero, che se non fosse nato a Napoli non avrebbe scritto. Ecco, anche per me è così. Se tu, ad esempio, ti fermi in un posto qualsiasi della città, non molto rumoroso dalle macchine, e senti i suoni, vedi che vieni attraversato dalla melodia della città.
Io a volte mi fermo nel mio quartiere, sta quella lenz e sole che attraversa via Foria, io mi fermo e me la prendo tutta. Sento i suoni della città, sono di una bellezza e di un arricchimento dell’anima infinita e, in quel momento non ho bisogni di niente, la mia giornata è già musica, basta che tiro fuori il mio strumento e suono. Per cui, voglio dire, nascere a Napoli nel mio caso e in quello di Maurizio è una fortuna».
Napoli è la vostra musa, quindi, la tua musica, però, è stata composta anche per dei film, come In punta di piedi, com’è stata questa esperienza?
«Per me è stato il massimo della mia espressione, perché, ogni volta che faccio un pezzo non è mai fine alla musica, ho sempre in mente delle immagini. Perciò, vederle realizzate è stata un’emozione unica».
Proprio come un pittore!
«Sì, esatto, in particolare mi è piaciuto molto musicare Bastardi di Pizzo Falcone».
Noto che tua musica è sia malinconica, anzi mi correggo, melanconica, ma ha anche degli sprint, quasi di ribellione.
«Hai colto molto bene il senso della mia musica, un mio antagonista dice sempre “come sei triste quando suoni”, forse è geloso! Scherzo, in realtà ha ragione, mi rivedo un po’ come Eduardo De Filippo, Totò e Viviani, che tiravano fuori una risatina amara».
Un sorriso umoristico, da vero napoletano, che adora la sua città ma la vede dilaniata.
«Ti faccio una domanda, quanto è divertente Natale in casa Cupiello? È amara ma divertente, non è comica, rispecchia le nostre tradizioni, la nostra vita, la nostra quotidianità. Rispecchia la nostra Napoli».
Una riflessione sulla napoletanità, tutto questo c’è anche nell’ultimo CD?
«Nel mio ultimo CD, Vesuviana, solo basso e sassofono, abbiamo ripreso tutti i pezzi della nostra storia e c’è anche il pezzo dedicato a Rino, perché, per me, se n’è andato da molto poco».
Che consiglio daresti ai giovani musicisti?
«Io ho sempre creduto nei giovani, gli ho sempre dato molte possibilità ma ai miei studenti consiglio sempre di concludere gli studi e di insegnare, perché è importante tramandare la musica, fate carriera solo se vi danno la possibilità.
Bisogna pensare prima al proprio futuro dal punto di vista economico, perché altrimenti l’arte non è possibile farla.
Non bisognerebbe mai pensare agli artisti maledetti, io non cambierei mai la mia vita con quella di Parker, perché che vita è stata morire a 34 anni? Se il diavolo mi dicesse di suonare come lui ma prendenomi anche la sua vita? Mai, perché io amo la mia vita».
Una voce fuori campo chiede se è possibile fare una domanda al maestro, è il custode della chiesa e io accetto volentieri: Dio dice ad Abramo “vai via di qua, vai nell’altra direzione, vai verso te stesso” sai se anagrammiamo il termine ebraico diventa “essere libero”, questa verità è anche una tua verità?
«Una volta a un giovane musicista con cui ho fatto un’intervista chiesero se fosse bello andare in giro con me a suonare e lui rispose “è bello andare ma è bello anche tornare”. Ecco, ci fece sorridere, ma è vero, sì, è bello viaggiare veramente o con la fantasia, ma è bello tornare nella realtà, essere sempre se stessi».
Ritorno in quella bambina folgorata dalla passione della città ma allo stesso tempo disincantata dalla violenza feroce da cui viene stravolta. Non abbiamo seminato nulla, abbiamo raccolto anche meno ma abbiamo sorriso.
Con quella fusione magica di passioni abbiamo curato la nostra città.
Vedi anche: Ninni: una nuova trincea napoletana