Myanmar: colpo alla libertà ma non alla resistenza
Il 1 febbraio in Myanmar l’ombra del passato è tornata ad oscurare il paese.
Quella che le persone definivano l’Era Oscura, in riferimento ai molti anni passati in cui il paese era oggetto della dittatura dei militari, è riapparsa.
Paura e ricordi angosciosi di un’era che sembrava, o quanto meno si sperava, fosse superata per sempre sono tornati.
Un colpo di stato ad opera dei militari è avvenuto ponendo fine al processo di democratizzazione intrapreso dal paese da dieci anni. Tra il 2010 e il 2011 infatti è cominciato questo lento cambiamento con la liberazione di molti oppositori politici al regime e la nascita di un governo liberamente eletto.
Ciononostante i militari hanno continuato, in questi dieci anni, a detenere un forte potere nel paese. L’attuale Costituzione birmana, infatti, è quella varata dal regime dei militari poco prima della sua caduta nel 2008, e riserva all’esercito il 25% dei posti in parlamento, i cui destinatari non vengono eletti dal popolo ma nominati dal comandante delle forze armate, ovvero il generale Min Aung Hlaing.
Ed è stato proprio il generale Hlaing a guidare il golpe avvenuto la mattina del 1 febbraio, esattamente nel giorno in cui il nuovo parlamento si sarebbe dovuto riunire per la prima volta.
I militari hanno arrestato tutti i leader del partito di maggioranza, in primis la popolarissima Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace e principale oppositrice del precedente regime, che ha guidato il paese verso la democrazia e attuale capo del partito della Lega nazionale per la democrazia (NLD).
I militari hanno anche dichiarato un anno di stato di emergenza, interrotto le trasmissioni della televisione di stato e interrotto le linee telefoniche.
A novembre 2020 si erano svolte le elezioni ed erano state vinte nettamente della Lega nazionale per la democrazia, mentre il Partito per la solidarietà e lo sviluppo (USDP), ossia quello dei militari, avevano perso in modo massiccio.
Ma nonostante la chiara vittoria della Lega, l’USDP ha parlato di brogli elettorali e non accettato il risultato del voto liberamente svolto. Da mesi ormai la tensione nel paese era alta e si temeva un’azione da parte dei militari, poi avvenuta.
Aung San Suu Kyi fortemente temuta dall’USDP per il suo potere e popolarità, è attualmente privata della libertà e non è ben chiaro dove si trovi, ma la leader ha esortato il popolo a reagire protestato pacificamente.
Ci da gioia constatare la possente resistenza generalizzata.
Da quando i fatti sopracitati sono accaduti, gli abitanti della Birmania non si sono arresi e le proteste pacifiche, con le mani con sole tre dita sollevate a ricordare il film Hunger Games, dilagano in tutto il paese.
Netta la condanna della comunità internazionale, ma l’attuale situazione cambierà solo quando le proteste e gli scioperi metteranno i militari nelle condizioni di non poter più gestire la massa inferocita delle popolazione che reclama a gran voce la propria libertà.
Beatrice Gargiulo
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