Scoprirsi ciechi nel 2021: Saramago sei stato tu?
Si fa un gran parlare di leggere libri in questo periodo di restrizioni e forse davvero non è una cattiva idea.
Scorrono liste dei migliori titoli dell’anno alternati a quelli da non perdere assolutamente prima di morire.
Dedicarsi a un hobby e impegnare il proprio tempo libero, tutti i giorni, perché di tempo libero ce n’è tantissimo, potrebbe generare atteggiamenti diversi, sviluppare delle fobie importanti come l’autoconfinarsi in casa anche quando è possibile uscire.
Ma anche reazioni opposte, come sentirsi privati ingiustamente della propria libertà e decidere di uscire senza seguire le regole.
Perciò prendete un libro e sedetevi.
Io Josè Saramago mica l’avevo mai letto.
E mica lo sapevo che avrei scelto il periodo peggiore per conoscerlo.
Se puoi vedere, guarda.
Se puoi guardare, osserva.
Così recita la dedica d’inizio per Cecità, capolavoro della letteratura.
Bene, parlavamo di passatempo, piacere e arricchimento. Ma proprio piacere, Cecità, considerati gli attuali tempi, non lo regala.
Intendiamoci: stiamo parlando di un capolavoro, ma anche di un testo amaro, spietato, difficile. Le duecentosettantasei pagine diventano ottocento, raccontando una storia con affanno senza mai fare pausa (stile inconfondibile dell’autore è l’assenza di segni, punti interrogativi, punteggiatura che indichi un qualche dialogo).
Saramago non ha fatto altro – evidentemente non si è premi Nobel per caso! – che anticipare ciò che sarebbe successo venticinque anni dopo: una pandemia globale. Certo non siamo diventati ciechi, ma chi può dirlo?
Quello di cui parla l’autore è sì un’epidemia incontrollabile che da un giorno all’altro ha posato davanti agli occhi della popolazione un lungo lenzuolo bianco impedendo di vedere, ma è anche e soprattutto un viaggio attraverso l’uomo, una favola che ne racconta le brutture, le relazioni interpersonali con le sue sopraffazioni.
Saramago non ci risparmia nulla.
Ben presto la popolazione di ciechi che il governo ha confinato in quarantena senza pietà e senza umanità si divide: c’è la caccia al cibo, la lotta all’autorità, la legge del più forte a decidere chi sopravvive e chi invece deve morire.
Non abbiamo bisogno di epidemie o di guerre perché ciò si verifichi.
Quando i soldati consegnano le pochissime casse di cibo ai ciechi nell’edificio, iniziano a crearsi le fazioni. Il cibo diventa motivo d’ossessione e di litigio, e lo è anche fuori dal romanzo. Il principale pensiero dei cittadini in seguito ai primi casi del Coronavirus è stato quello di correre immediatamente al supermercato e acquistare interi scaffali di prodotti prima degli altri, per mettersi in salvo.
Nel romanzo qualsiasi oggetto diventa un’arma di ricatto, di minaccia o di speculazione: se consegnerete oro, gioielli e soldi potrete mangiare, se portate le donne non digiunerete. I gruppi che detengono il potere lucrano sul cibo e sulla fame che ormai è assordante. La trasposizione odierna è l’Amuchina venduta su Internet a prezzi esorbitanti e la mascherina fatta passare per un bene di lusso, unico modo per commercializzare anche la paura.
“È di questa pasta che siamo fatti: metà di indifferenza e metà di cattiveria”, scrive Saramago in un passaggio del romanzo. E non è forse stato così?
Il sentimento iniziale delle prime settimane è stato l’indifferenza: l’epidemia era in Cina, lontanissima, e le uniche preoccupazioni erano: «il virus è affar loro, a noi che ci frega?». E i soldati che scherniscono con gelida indifferenza i ciechi che tengono centrati nel mirino, non fanno ripensare a quando anche noi, all’ennesimo starnuto o tosse, alla fila del bancomat abbiamo fatto dieci passi indietro per paura di morire all’istante?
Quando il virus è letteralmente esploso in Italia, l’indifferenza però si è spostata. L’allarmismo ha portato l’uomo a fossilizzarsi su un unico pericolo dimenticando le emergenze a lungo termine, anch’esse catastrofiche: l’Antartide senza neve, l’Amazzonia in fiamme, la morte dei bambini in Siria, barconi che continuano a morire, ragazzi come Patrick Zaky che ancora non tornano a casa.
“È una vecchia abitudine dell’umanità passare accanto ai morti e non vederli”, dice ancora Saramago la cui cecità fa riferimento non è affatto una menomazione fisica, ma dei sentimenti.
Un’altra peculiarità dell’autore è quella di non dare nomi ai suoi personaggi, li si riconosce grazie all’uso di alcune caratteristiche che ritornano sempre tra le pagine: il primo cieco, la moglie del medico, la ragazza con gli occhiali scuri, il bambino strabico o l’uomo con la benda nera. Nessuno ha un’identità se non quella del proprio ruolo sociale.
E non è forse così che siamo chiamati adesso?
In televisione o attraverso le videoconferenze dei nostri sindaci diventiamo tutti impersonali, non abbiamo nomi, ma casi.
Non abbiamo identità, ma numeri affibbiati.
Lungo tutte quelle pagine, mi sono chiesta moltissime volte:
e se adesso aprissi gli occhi e vedessi tutto bianco?
È vero che alla fine la vita, qualche volta, vince perché la gioia e la tristezza possono fondersi, come il primo cieco e sua moglie che a volte si perdono nel vuoto perché non sanno dove sono i visi, gli occhi, la bocca ma i baci cercano baci e i loro corpi sono un tutt’uno per la gioia di ritrovarsi pur non vedendosi.
Ma il senso di smarrimento ed impotenza continua a tenerci quel lenzuolo bianco davanti agli occhi.
Io ho paura di aprirli mentre fuori tutto è quasi tranquillo.
E se non siamo ancora ciechi, mi domando perché continuiamo a non vedere.
Disegno di Simone Passaro
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