“L’anima di Bambinella mi ha accolto”: intervista all’artista-trasformista Adriano Falivene da Danny Boyle a Ricciardi
Figura iconica della religiosità popolare napoletana, Bambinella è il femminiello della saga Ricciardi interpretato da un super Adriano Falivene nella fortunata serie Rai di Alessandro D’Alatri.
Forse il personaggio più amato dal pubblico televisivo, già affezionato al colorito ritratto scolpito dalla penna fantasista di de Giovanni nei suoi gialli campioni d’incassi.
L’attore si racconta…
Ballerino, clown, equilibrista, giocoliere, cantante. Adriano Falivene è l’artista-trasformista che ha prestato il volto in modo quasi prodigioso a Bambinella, voce corale della napoletanità e spirito asessuato di Partenope racchiuso nel corpo ibrido di femminiello. Attraverso una mimica impeccabile e un “espressionismo pudico” tutto suo, l’attore campano ha saputo dare voce al sentimento del tragicomico regalandoci forse i momenti più alti, irriverenti e toccanti della regia D’Alatri durante i siparietti col Brigadiere Maione. Una coppia amatissima, la loro.
In Bambinella c’è il maschile e il femminile, il pudore e la teatralità della mimica, la solitudine e insieme l’onniscienza di chi conosce il ventre chiassoso della città come nessun altro. Come si racconta, in un unico corpo, questo miracoloso equilibrio di opposti? Ti sei ispirato a qualche ritratto dal passato (vedi La Pelle di Curzio Malaparte o La gatta Cenerentola di Roberto De Simone)?
«La ricerca è andata in tante direzioni, ma la vera ispirazione è stata l’anima di Bambinella e basta. Per quante analogie possano esistere, credo che Maurizio sia riuscito a darle una singolarità, un colore indefinito che la rende irripetibile nella sua unicità».
Nel tuo percorso artistico sembra esserci quasi un fil rouge ad unire i ruoli che hai interpretato: dalla “casa chiusa dell’arte” in Dignità Autonome di Prostituzione di Luciano Melchionna (in cui gli attori, come prostitute, adescano gli spettatori-clienti e contrattano il costo delle singole “prestazioni”) al femminiello dei Quartieri Spagnoli che “negozia” spassosamente le sue confessioni col brigadiere Maione. Pura casualità o Bambinella è un ruolo che hai fortemente cercato, proprio in virtù di questa continuità col passato?
«A volte ho la sensazione che certe anime vaghino alla ricerca di qualcuno disposto ad accoglierle. E Bambinella mi ha come accolto, dandomi l’opportunità di mettere al suo servizio tutto il bagaglio emotivo che ho maturato negli anni. Credo che la continuità che c’è nel mio percorso nasca dall’idea di incamminarsi e di trovare la meta nel modo di percorrerla questa strada, piuttosto che nel traguardo».
La storia popolare racconta che il femminiello è da sempre “tollerato” e benvoluto nella cornice folcloristica di una Napoli interclassista, dove “anche gli straccioni e gli emarginati hanno una loro signorilità”, come ha detto D’Alatri. A questo proposito mi è venuto in mente il caso di Tarantina Taran, l’ultimo femminiello dei Quartieri Spagnoli a cui l’artista di strada Vittorio Valiante ha dedicato un bellissimo murales due anni fa, imbrattato solo pochi giorni dopo (con accanto la scritta “Non è Napoli”). Alla luce di quest’episodio, pensi che questa narrativa di integrazione tutta napoletana sia reale? È cambiato davvero qualcosa dalle retate fasciste a cui scampa Bambinella, secondo te?
«Napoli è da sempre sinonimo di accoglienza e accettazione del diverso, ma il pregiudizio rispetto a qualcosa che non si arriva bene a comprendere è duro a morire. E il femminiello sfugge alla comprensione dei più – oggi come allora – proprio perché in contatto costante con nature contrapposte, perché fonte di una verità vissuta in modo atipico. Certo è che se in quegli anni di terrore l’intolleranza alla diversità era istituzionalizzata, oggi, per fortuna, è la discriminazione ad essere considerata anomalia».
Ci racconti com’è essere diretti da Danny Boyle?
«Esistono esseri umani che brillano di luce propria e hanno la capacità di illuminare anche gli altri. Danny è uno di quelli. Sono stato travolto dalla spinta creativa di un progetto potente come Trust (serie purtroppo sottovalutata in Italia) e ho sentito la volontà di dare il massimo non per timore o subordinazione, ma solo ed esclusivamente per la gratitudine di farne parte. Si tratta di una storia nella storia. Non è solo il rapimento del giovane John Paul Getty III ad essere raccontato, ma anche gli sviluppi di un’organizzazione criminale che è ancora viva nella macchina dello Stato. E qui il bene combatte le derive dell’etica e le verità occulte nell’unico modo possibile: indagando il male e le sue dinamiche più nascoste».
Proprio qualche giorno fa è stato annunciato Le metamorfosi di Nanni per la regia di Barbara Napolitano, lo spettacolo musicale in programma a luglio nel cartellone del Napoli Teatro Festival, in cui ti esibirai accanto a Lello Arena e Giovanni Block (tra gli altri). Cosa puoi anticiparci di questo progetto?
«Le Metamorfosi di Nanni è una favola metaforica che racconta l’umano e disperato desiderio di trovare il coraggio di diventare ciò che si vuole. Nanni ha il potere di realizzare questa trasformazione in modo immediato, attraverso le canzoni, mentre io interpreto i vari “clienti” di questo magico mercante di storie. L’antagonista, il signor Ernesto (Lello Arena), è la parte pragmatica, quella vocina martellante che scoraggia l’ambizione di chiunque intraprenda un percorso irto e incerto».
Il Teatro Bellini è un po’ la tua seconda casa, hai raccontato. Una straordinaria fucina di talenti che ti ha reso il factotum da palcoscenico che sei oggi. Zona Rossa è l’esperimento in streaming che ha abitato i suoi spazi in pieno lockdown, ideato da Daniele Russo per dialogare col pubblico attraverso tecnologia e linguaggi social e per non spegnere del tutto i riflettori sul teatro. Pensi che queste nuove strategie messe in campo da artisti e compagnie possano influire sul modo di far spettacolo e di comunicare con gli spettatori anche a pandemia conclusa?
«Il Teatro Bellini è più di una seconda casa. È il luogo in cui ho percepito per la prima volta il sentimento della “libertà” e, nonostante la chiusura dei teatri, questa esigenza che accomuna artisti e spettatori non può morire. Purtroppo, la soluzione al problema sembra andare sempre di più nell’assurda direzione del “Teatro dell’Obbligo” di cui parla Karl Valentin: in una città come Napoli con quasi un milione di abitanti, ci vorrebbero un milione di teatri da un posto. Ed è un po’ quello che sta accadendo con lo streaming, quando ci illudiamo di star condividendo un sentimento collettivo pur essendo soli davanti ad uno schermo. Senza la vibrazione reale ed estemporanea di chi è seduto in platea e di chi si muove sulle travi di legno. Si tratta solo di una distrazione, è chiaro, di un rifugio per tenere duro che può portare però all’assuefazione e alla rinuncia di quella libertà di cui parlavo prima. A rigor di logica, a pandemia conclusa, ci dovrebbe essere una nuova epoca d’oro per il teatro e – se e quando accadrà – il mio augurio è che questi mezzi tecnologici tornino nelle mani di chi non deve avere a che fare con i sentimenti».
Speriamo che sia così…
Francesca Eboli
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