Caro Frankenstein, buon compleanno
Chiuso entro la mia creta, t’ho forse chiesto io, \Fattore, di diventar uomo? \T’ho forse chiesto io di trarmi dalle tenebre?
Scrive John Milton nel poeta epico il Paradiso perduto.
Eppure, se rileggessimo questi versi con più attenzione dimenticandoci per un istante dell’autore che li ha partoriti, non sembrano forse le parole che la creatura potrebbe rivolgere al suo creatore? Non riportano, forse, lo stesso eco di supplicante dolore?
Comunque, se il dottor Frankenstein generò “la creatura” riportandolo in vita dalla morte, egli fu invece partorito dalla fantasia di una giovane Mary Shelley nel lontano 1818, ben 203 anni fa.
Ad essere precisi, fu un paio di anni prima che la scrittrice britannica iniziò a trovare l’ispirazione.
Nel giugno del 1816 infatti – passato alla storia come “l’anno senza estate” per via delle gravi anomalie che subì il clima durante il periodo estivo – Mary Shelley, insieme a quello che di lì a poco sarebbe poi diventato il suo futuro marito, Percy Bysshe Shelley, trascorse le vacanze estive a Chupuis, in Svizzera, sulle rive del lago di Ginevra.
In quella che fu un’estate piovosa e certamente poco clemente, la coppia era solita far visita all’amico George Byron che aveva fittato per le vacanze estive Villa Diodati, una graziosa abitazione nei pressi del sobborgo ginevrino di Cologny. E fu proprio durante una di queste visite che i coniugi furono colti da un’improvvisa tempesta che li costrinse a trascorrere alcuni giorni presso la dimora dall’amico insieme alla sua amante Celine e al suo medico personale John Polidori.
A questo punto, tutto quello che si poteva fare era trovare un’espediente che li aiutasse ad ingannare il tempo e cosa si prestava meglio, nel bel mezzo di un clima così inquietante, se non lasciarsi suggestionare dalle letture tratte da Fantasmagoriana, un Decamerone dell’orrido tutto tedesco?
Fu proprio durante una di queste letture che Lord Byron ebbe l’idea che si dimostrò poi fruttuosa non solo per Polidori che ideò Il vampiro, ma anche per la Shelley. Byron infatti propose ai suoi ospiti di scrivere un racconto dell’orrore da leggere nelle sere successive. Una volta terminata la fine dell’ultimo racconto, tutti i presenti ne avrebbero decretato il migliore.
“Mi sono impegnata a pensare a una storia – scrisse anni dopo l’autrice – che parlava alle misteriose paure della nostra natura e risvegliasse un orrore da brivido: una storia che facesse temere al lettore di guardarsi attorno”.
La verità però è che l’ispirazione non fu immediata, anzi, la scrittrice trascorrerà qualche notte sommersa dai pensieri in cerca di una valida idea, finché, ripensando a una discussione avvenuta tra due ospiti su un pezzo scritto da Madame De Stael che parlava della possibilità da parte degli scienziati di poter rianimare un corpo senza vita attraverso gli esperimenti galenici, la storia le apparse in sogno.
Complice il suo doloroso passato – la scrittrice perse la madre morta a causa di un’infezione causata dal parto e dei bambini – la Shelley sognò di uno studente che dette vita ad una cosa mostruosa che grazie all’aiuto di alcuni macchinari e degli impulsi elettrici rilasciati da queste prese vita. E mentre la cosa iniziò addirittura a camminare, lo studente scappò inorridito e soprattutto impaurito.
Era la storia giusta.
Il romanzo, dal titolo Frankenstein, fu pubblicato poi nel 1818 in forma anonima per via delle preoccupazioni della scrittrice britannica riguardo ai severi giudizi dell’epoca e rielaborato definitivamente nel 1831 dove, in una stesura rivisitata e più ampia, l’autrice aggiunse anche una prefazione in cui descriveva il sogno ispiratore.
E così attraverso l’inconscio manifestatosi nel sonno, ascoltando la voce dei suoi incubi e forse delle sue speranze e riprendendo il mito di Prometeo rivisitato magistralmente, la Shelley ha dato vita ad un’idea, ad un messaggio, che è sopravvissuta sino ad oggi passando alla storia come uno dei più grandi racconti della letteratura occidentale.
Infondo chi altro potrebbe essere il dottor Frankenstein se non un novello Prometeo che cerca di trascendere i limiti imposti dalla sua condizione di essere umano per diventare quasi simile ad un Dio?
Così infatti come aveva fatto Prometeo rubando il fuoco a Zeus per donarlo agli uomini, Frankenstein, affascinato dall’elettricità e pronto a vedere il corpo come una mera macchina, prova a generare con successo una creatura giocando abilmente con i limiti tra la vita e la morte come se fosse un moderno Dio. Infine, non riuscendo a cavalcare e a domare quella linea sottile, finisce per cadere vittima della sua stessa invenzione che si ribellerà in cerca del libero arbitrio ma soprattutto dell’amore che nessuno è in grado di dargli.
Perché se c’è una cosa che quella creatura cerca è proprio l’amore, un amore che gli viene negato per il suo mostruoso aspetto esteriore che tramuta la sua bontà d’animo in un’ira feroce e inappagabile causata dalla frustrazione dell’incomprensione.
Eppure, nonostante la sua mostruosità, nell’introduzione all’edizione del 1831 Mary Shelley scrisse di provare affetto per la sua “progenie orribile”. E come si può non provare compassione ed empatia per quella creatura incompresa che forse nasconde una piccola parte di noi?
Dall’alto dei suoi 203 anni, Frankenstein è riuscito a superare gli stereotipi del romanzo gotico restando ancora oggi un mito vivo ed indenne che continua ad ispirare film, racconti, rivisitazioni, musiche, fumetti e molto altro.
Vorrei che Mary sapesse come la sua amata creatura sia più viva che mai.
Buon compleanno, Dottor Frankenstein. E buon compleanno a te, “progenie orribile”.
Adele De Prisco
Copertina di Simone Passaro
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