Mai svegliar il vulcan che dorme
Quando si parla di Napoli, non si può non far riferimento al Vesuvio, che vi regna sovrano.
Il vulcano dormiente!
Il suo monitoraggio è costante, sebbene l’ultima effettiva eruzione risalga al 1944, durante la seconda guerra mondiale: le colate di lava arrivarono fino a Cercola e danneggiarono paesi come Scafati, Angri, Poggiomarino, Cava, Terzigno, Nocera Inferiore, Nocera Superiore e ovviamente Pompei. Ventisei furono i morti.
A questo punto, viene automatico parlare della famosa eruzione del 79 d.C che distrusse Pompei, Ercolano, Oplonti e Stabia. All’epoca, gli abitanti di tali paesi non avevano la benché minima idea di trovarsi accanto a questo mastodontico gigante in quanto questo non era visibile. Fu soltanto dopo l’esplosione che si formò il cono ed è per questo che gli stessi cittadini non riuscirono a cogliere i segnali dei giorni precedenti all’eruzione, come le frequenti scosse di terremoto e l’assenza di acqua nei pozzi.
Ancora più grave fu l’eruzione del 1631: dopo ben cinque secoli di inattività: il cielo fu oscurato da un’enorme nuvola e il cratere centrale crollò. Il tutto fu preceduto da devastanti terremoti, dalla caduta di ceneri, forti temporali e da colate di lava e fango che distrussero la vegetazione e uccisero migliaia di uomini e animali.
Tecnicamente il Vesuvio è parte dell’arco vulcanico campano ed è uno stratovulcano che rientra nella categoria di quelli grigi, per il materiale che ne fuoriesce quando è attivo.
Ma perché si chiama Vesuvio?
La parola Vesuvio deriverebbe dalla radice sanscrita “vasu”, ossia fuoco, dall’indoeuropeo “auses”, ossia illuminare, o ancora “eus”, bruciare.
Virgilio, nelle Georgiche, lo identificò come “Vesevo”, dal latino vesuvia, cioè favilla, mentre Leopardi lo definì “Sterminetor” nella sua Ginestra.
Matilde Serao, invece, raccontò di un giovane chiamato appunto Vesuvio, innamorato della bella e dolce Capri.
Alessandra Liccardi
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