The Midnight Sky: la sci-fi di George Clooney tra terra e stelle
Hai già visto The Midnight Sky, l’atteso space drama di George Clooney tratto da La distanza tra le stelle (2016), fortunata opera prima della giovanissima scrittrice Lily Brooks-Dalton?
Il premio Oscar americano, nel ruolo plurimo di regista, produttore e interprete, si cimenta per la prima volta nel genere fantascienza montando una survival story dal budget stellare e la fotografia eterea.
Avrà passato il test?
Deve essere stato davvero impegnativo interpretare l’ultimo sopravvissuto di una catastrofe ecologica…pare proprio di sì, visto che la preparazione di Augustine Lofthouse è costata a Clooney una pancreatite acuta e un ricovero d’urgenza, uno scotto che assomiglia tanto alle algide sorti del personaggio a cui presta voce e corpo nella sua pellicola. Lo scienziato stacanovista col viso smunto e la barba incolta di malato terminale abbandonatosi nella tundra antartica per un fine ben più alto, che perfora il cielo adamantino e supera anche quegli astri lontani infiniti anni luce che lui scruta da una vita intera.
Siamo in un 2049 glaciale, agli sgoccioli di una parabola terrestre catastrofica (e oggi sinistramente attuale). Protagonista dell’apocalisse è un uomo tormentato da un passato irrisolto e col mondo (letteralmente) sulle spalle. Esperto conoscitore delle stelle che si sottrae all’operazione-salvataggio nelle viscere di una Terra putrescente per proteggere l’ultimo germe di vita possibile. Come? Impedendo il rientro in orbita dell’equipaggio Aether, sonda spaziale di ritorno da una passeggiata interstellare su K-23, satellite di Jupiter pronto ad accogliere il destino di una specie umana nuova di zecca. Una voce di flebile speranza che si leva da un’asettica stazione spaziale, un segnale luminoso lanciato verso l’altra faccia del cielo.
La trama si snoda su un triplo binario narrativo. Il primo è la calda liaison tra Jean (Sophie Rundle) e un giovane Lofthouse, già promessa della scienza senza spazio per i sentimenti, una storia snocciolata al ritmo intermittente di flashback e destinata presto ad implodere. Si aggiunge l’odissea ora placida ora palpitante di un Augustine maturo, infaticabile eremita al confino nella base islandese e alla prese con piani di salvataggio intergalattici. Un nonluogo in cui irrompe presto Iris (l’esordiente Caoilinn Springall), tenera bimba col broncio stampato in viso ed eloquentissimi occhioni blu, altra creatura dimenticata nel grande cimitero del mondo che accompagnerà lo scienziato nella sua estrema corsa contro il tempo. A completare il patchwork, la quotidianità ovattata e sospesa dell’equipaggio di Aether, la navicella che scivola lenta sulle rotte non battute dello spazio tra guasti tecnici e meteoriti in tempesta, popolata da Sully (una Felicity Jones gravida per davvero), il suo compagno Adewole (David Oyelowo), astronauta nigeriano incallito, Mitchell (Kyle Chandler), Sanchez (Demián Bichir) e la dolce, innocente Maya (Tiffany Boone), per la prima volta a spasso per la Via Lattea.
Clooney firma un progetto ambizioso che ha preso vita a 33 gradi sotto zero tra le lande sperdute del Polo Sud. Un cast di fuoriclasse e una scenografia spettacolare che non si nasconde dietro le stregonerie degli effetti speciali, ma porta il nome di Jim Bissel, leggendario artigiano hollywoodiano di “E.T. L’extra terrestre” (1982), specializzato in architetture della NASA. E la complicità muta tra Augustine e la piccola Iris è il primo dato emotivo a far presa sull’audience, con cui non si fa fatica ad empatizzare. Una cura per l’altro che mostra l’essenza nuda e cruda di un affetto intergenerazionale, un germoglio d’amore nel deserto sentimentale di un cataclisma che fa interrogare e commuovere, soprattutto in tempi così fragili. E poi c’è la suggestiva soundtrack orchestrata dal gigante Alexandre Desplat, premiato con statuetta d’oro per Gran Budapest Hotel (2014) e La forma dell’acqua (2017), per intenderci. Ma i virtuosismi estetici e l’eccellente performance del protagonista non bastano a promuovere a pieni voti questo primo esperimento di sci-fi targato Clooney.
L’epopea di quest’uomo profondamente solo annoia un po’ e a tratti disorienta, rendendo spesso laschi i nessi che tengono insieme questo groviglio di storie. Forse pecca di uno script (quello di Mark L. Smith) non sempre fluido che porta lo spettatore a interrogarsi per un tempo imprecisato cosa sia accaduto esattamente sulla Terra e quale sia l’obiettivo di Augustine Lofthouse. E forse anche colpa di quegli intermezzi sporadici d’adrenalina (vedi la scena subacquea in cui Clooney lotta con le lastre di ghiaccio per risalire a galla) dopo i quali la suspense tende a diluirsi, perdersi tra i piani temporali e spaziali di un’architettura non troppo solida e in alcuni passaggi fuori fuoco.
Alla fine della pellicola ci si chiede cosa di inedito abbia voluto raccontarci questo sex symbol nelle vesti di autore impegnato che i disaster movie precedenti non ci abbiano già detto. Immediata è l’associazione con Gravity (2013), il premiatissimo blockbuster di Alfonso Cuarón a cui lo stesso Clooney ha preso parte. Alla lotta estrema per sopravvivere ai confini del mondo ci ha già pensato Iñarritu con Di Caprio in Revenant (2015). E quando ci sono di mezzo le dinamiche padre-figlia inter-spazio/tempo come può non venire in mente Nolan, che le ha esplorate nel modo più commovente e sublime possibile in quel capolavoro di Interstellar (2014).
Insomma, guardando The Midnight Sky si ha la sensazione di ripassare tutti i must-have del filone fantascienza: ecotragedia, scouting negli angoli remoti dell’universo, scoperta di un nuovo tetto abitabile e sfratto dei sopravvissuti da un domicilio spaziale all’altro (lo schema recita più o meno così). Peccato che la favola dark dell’uomo, creatura meravigliosa e terribile che sa approdare sulla Luna ma anche mettere in scena la spettacolare distruzione del grumo di terra che lo ospita, ce la siamo sciroppata troppe volte.
Provaci ancora, George!
Francesca Eboli
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