Il filo nascosto: il ricamo d’amore e veleno di Anderson è su Netflix
Il Paul Thomas Anderson che sfiora ancora una volta l’Oscar arriva nel catalogo Netflix con Il filo nascosto (2017), pellicola epidermica dove romanticismo e nevrosi si intrecciano in una preziosa tessitura di solitudini, quella di Reynolds Woodcock (firma eccelsa della sartoria luxury londinese anni ’50) e Alma, scialba cameriera di provincia trasformata in musa e amante dal bulimico stilista, materia viva da modellare a colpi di insana creatività.
Una trama di amorevoli ossessioni e inquietudini sotterranee dal sapore mortifero, eppure un esercizio di stile che è una delizia per gli occhi e una gemma della recitazione con l’ultima performance dell’infallibile Daniel Day-Lewis sul grande schermo.
Non è di certo un amore vibrante di passione carnale e violenti moti (di corpo e di cuore) quello tra Alma (Vicky Crieps) e Reynolds (Daniel Day-Lewis). E nemmeno un fluviale duello di testa tra due amanti affezionati al flirt cerebrale fatto di ricami dell’intelletto e sensuali volteggi di parola. Perché la storia di cui stiamo parlando è una partitura di silenzi rotti solo occasionalmente da scambi asciutti e pudicissimi sguardi, una sceneggiatura dove i sentimenti bisbigliano sotto la seta pregiata degli abiti Woodcock e dove i nervi a fior di pelle hanno un suono quasi trasparente.
Lui un maniaco stakanovista devoto solo ad ago e filo, barricato nella siderale routine che si ripete indefessa nel tempio-atelier dove vive, dove lavora a ritmi svitati e dove ama (nel suo modo atipico) la schiera di donne-oggetto da prendere e buttare all’occorrenza, alla mercé del suo cuore atrofizzato e dei suoi capricci da scapolo con egomanie e traumi infantili irrisolti. Veste le silhouette eteree di nobildonne parigine, debuttanti e volti noti all’high society londinese, cercando nel cucito, nella stoffa e nella forma dei vestiti che confeziona le morbide curve di una perfezione pura, assoluta, senza macchia.
Lei giovane goffa cameriera del North Yorkshire incuriosita da quel “ragazzo affamato” piombato nel suo bistrot tra i vapori di un mattino autunnale. Rapita subito dal garbo di quella chioma argentea e i modi gentili, il guizzo nello sguardo e le mani esperte, incallite da metro e ago, e dal tratto d’inchiostro dei bozzetti disegnati dalle prime luci dell’alba fino a notte fonda. Inizialmente succube del suo fascino maledetto e nota stonata, coi suoi modi sgraziati, tra gli inflessibili rituali di casa Woodcock – scritti a quattro mani dal nevrotico sarto insieme alla sorella Cyril (una strepitosa Lesley Manville) – saprà guadagnarsi il podio nella schiera di donne che l’hanno preceduta e riuscirà ad ingannare la durezza di quell’algido cuore d’acciaio chino a cucire meraviglie in stoffa.
Ma non con gli espedienti narrativi iperglicemici a cui siamo abituati o improbabili conversioni spirituali del cattivo di turno, bensì con una sottile trama di velenosi giochi di potere e gesti subdoli mascherati dal velo della seduzione (e della mania), che vestono questo sofisticato melodramma con i tessuti del thriller psicologico d’“haute couture”, a metà tra onirismo e allucinazione, sadismo e amore maledetto. Alma riuscirà a rovesciare i giochi di ruolo all’interno della coppia prostrando Reynolds ad uno stato di grazia e innocente infantilismo (poi scoprirete come), così da sentirsi finalmente “l’unica”, l’oggetto ultimo di un desiderio patologico che rasenta le dinamiche sinistre della codipendenza.
Ed è così che quell’uomo sposato con nient’altro che la solitudine, che fabbrica abiti nuziali da mille e una notte senza mai abbracciare l’idea di ammogliarsi – perché non sia mai arrendersi ai turbamenti del cuore e all’umore ballerino dei sentimenti nella sua roccaforte incolore fatta di fili e intrecci serratissimi – si arrenderà a questa vestale dell’amore dal sorriso di Monnalisa e riconoscerà in lei il ruolo di serafica domina chiedendole di sposarlo. E rompendo così le superstizioni ricamate negli orli delle sue creazioni che lo vogliono scapolo impenitente a vita, Edipo tormentato e devotissimo alla madre defunta che gli appare in sogno come un’allucinata visione.
Sei candidature e un Oscar ai costumi (splendidi) per l’ottavo lungometraggio di Paul Thomas Anderson che fa incetta di premi tra Europa e America nel raccontare le nevrosi dell’animo umano alle prese con relazioni in bilico tra tossicità e autodistruzione, cura e sadomasochismo. Plauso al lavoro sopraffino di Day-Lewis (già pupillo del regista ne Il Petroliere, ruolo che gli è valso la seconda statuetta d’oro), con la sua tempra quasi afasica che sa diventare eloquente col rigore e la disciplina di un professionista devoto al suo mestiere, senza mezze misure, proprio come Woodcock.
Un film di superfici vellutate, manipolabili e carezzevoli ma dal cuore ostinato e nero. Semplicemente imperdibile.
Francesca Eboli
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