Lotta di classe sul palcoscenico: il marzo italiano dei teatri occupati
A cinquantatré anni di distanza dal turbolento maggio francese, quando il Théâtre de l’Odéon con la sua compagnia Comédie-Française diventò luogo-simbolo di lotta intellettuale e operaia in pieno stile sessantottino, la storia si ripete, puntuale, in un marzo battagliero tutto lotte e presidi all’italiana.
A portare avanti il grido di protesta sono i lavoratori dello spettacolo da nord a sud del paese, ormai stremati da questo impasse pandemico e dall’immobilismo delle istituzioni che non progettano, ritrattano, temporeggiano. “È un morbo culturale”…
Un “virus colto”, sì, questo covid (come ha affermato ironicamente Antonio Rezza a Propaganda Live), che da un anno a questa parte sembra colpire soltanto musei, cinema e teatri, lasciando indenni luoghi di culto, ristoranti, negozi….un contagio selettivo, insomma.
Ma ora i lavoratori dello spettacolo – sulla scia delle rimostranze parigine che dal 4 marzo hanno innescato l’occupazione di quasi novanta teatri in tutto il paese – dicono basta e fanno breccia (letteralmente) nei luoghi della cultura dimenticati tra Napoli, Milano e Padova. L’obiettivo è aprire un tavolo di confronto autogestito tra i soggetti di questo precariato permanente, ma anche sollecitare una risposta ministeriale che dall’alto rimetta in moto l’intero comparto, con protocolli di sicurezza e misure economiche durature.
La miccia è scattata a Milano lo scorso 27 marzo, Giornata Mondiale del Teatro. Una data di festa che non ha potuto che esacerbare gli animi e degenerare nella rabbiosa ondata di manifestazioni in risposta all’ennesimo dietrofront di Franceschini, voltagabbana ormai navigato, che ha ritrattato la trionfale riapertura promessa per l’occasione, in questo stop pasquale tinto di rosso. Il Piccolo di Milano non ci sta e occupa col Coordinamento Spettacolo Lombardia e il supporto di alcuni gruppi studenteschi, a difesa del luogo di cultura popolare per eccellenza, il primo teatro comunale di prosa d’Italia dove i grandi padri Strehler e Grassi hanno seminato un’arte che parlasse soprattutto fuori dai palchi. “Portare il teatro alla gente, non la gente a teatro”, si diceva, un mantra che riecheggia forte nelle sale vuote, in questi giorni grigi più che mai. Le richieste: un dialogo con Mibac e Ministero dello Sviluppo Economico e del Lavoro per una riforma strutturale fatta di ristori massicci (e puntuali, più di tutto), e che risolva, sul modello francese, l’antica diatriba sul reddito di continuità, ormai una chimera che contribuisce a svilire la dignità di professioni pensate come “intermittenti”, oggi instabili come mai prima.
Dopo Milano è la volta di Padova col Teatro Verdi, a Venezia i bauli bloccano il Ponte della Libertà, Roma si riunisce davanti al Teatro Argentina e il Mercadante a Napoli, dopo il blitz di giovedì scorso, ottiene una delegazione assembleare orizzontale per “socializzare” il dibattito. Un teatro nazionale presidiato per dare un segnale forte, ad ampio raggio, che sconfini le rivendicazioni locali e faccia rete con altre realtà italiane, in linea con il Teatro Niccolini dell’Accademia di Belle Arti (il primo in assoluto ad essere stato occupato in Italia). Accademia che ha solidarizzato col Mercadante in continuità con le proprie di proteste, trainate dagli studenti stremati da mesi alienanti di DAD ed indignati dalla condotta omertosa della direzione a coprire le molestie sessuali (decennali) di un docente ai danni di tantissime studentesse.
È necessaria un’interlocuzione sistematica per superare un modello economico che zoppica, ora è evidente a tutti, per ridefinire le istanze comuni non solo al napoletano ma all’intera categoria spettacolo, che sbraita sì dopo un anno di malcontenti, ma che arranca anche sotto il peso di uno storico sfiancante, fatto di contratti irregolari e lavoro a nero. Tra le rivendicazioni anche una proroga degli indennizzi per tutto il periodo di chiusura da Covid, così che gli anni 2020-2021 vengano considerati per intero ai fini contributivi.
Tutte richieste di un comparto che in questo tempo anomalo si è riscoperto il più fragile, il più dimenticato di tutti. E che sembra essere fagocitato da un mondo del lavoro iperindustrializzato che fa della cultura, questa sconosciuta, l’ultima ruota del carro.
Francesca Eboli
Vedi anche: Messico: dove la parola sicurezza non ha significato
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