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Tutto il mio folle amore: Salvatores torna al road movie per raccontare l’autismo

Plana su Netflix il roboante road movie “kusturicano” di Gabriele Salvatores, tratto dal romanzo vagabondo Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas (2012, Marcos y Marcos).

Un picaresco scivolare sui sentimenti che fa vibrare di tenerezza i cieli ocra dell’ex Jugoslavia.

Una poesia errante su genitorialità, autismo e altre diversità, sulla bizzarria “fanciullina” che impazza sotto la superficie afasica del nostro monotono presente, colorita da un cast superbo e una fotografia firmata Italo Petriccione.

97 minuti di “folle” meraviglia per una storia che emoziona e che fa bene al cuore “come il pane”…

Dopo le incursioni sperimentaliste nella sci-fi con la saga de Il Ragazzo invisibile (2014) e la scommessa cyberpunk Italo-francese Nirvana (1997), il premio Oscar napoletano Gabriele Salvatores torna ai primordi della sua filmografia solcando le amate geografie del road movie: macchina da presa in braccio, vento tra i capelli e quel suo vizio primitivo di macinare chilometri tra gli orizzonti mutanti delle sue storie fuggiasche.                                                                                                                          

Sarà stata forse la nostalgia degli ispiratissimi inizi, con Marrakech Express (1989), Turné (1990) e Mediterraneo(1991) a solleticare la fantasia del cineasta, un po’ scolorita alla soglia dei 70 e fiaccata da un ventennio di produzioni sì coraggiose, ma per cui s’è fatto fatica a gridare al capolavoro. Fantasia non abbastanza stanca da smettere di storieggiare sulle emozioni, però, perché con Tutto il mio folle amore (dalla canzone di Pasolini scritta per Capriccio all’italiana) Salvatores reinventa “in corsa” i sentieri già battuti dal materiale emotivo e li veste dello stupore delle cose semplici, come l’amore perduto e ritrovato tra Willi e Vincent, un padre nomade e un figlio “speciale”. Padre che è un’anima rom canterina, scapestrato musicista conosciuto come “il Modugno della Dalmazia” (interpretato da un Claudio Santamaria strepitoso nella mimesi del menestrello nazionale) e figlio che è un Peter Pan dalla chioma color grano e dal vitalismo a briglia sciolta indotto da un disturbo della personalità (un Giulio Pranno dal carisma incendiario, talmente credibile e misurato al suo ruolo d’esordio che ci si chiede se sia disabile anche fuori dal set). I due si ritrovano a 16 anni di distanza dal concepimento orfano di papà, anni in cui è stata mamma Elena a fare da wonder-genitrice (una Valeria Golino perfetta nelle sue corde attoriali nostalgicamente inquiete), insieme a Mario (l’immancabile Diego Abatantuono, umorista-feticcio del Salvatores), patrigno bonaccione e riflessivo, che quel bimbo fuori dal comune l’ha accolto nel suo pacato abbraccio senza bisogno dei lacci della genetica.

Un trio familiare sui generis, il loro, interrotto nel suo respiro stanco e dolente dalla tempra imbizzarrita di Vincent, con i suoi moti incontrollati, urlanti, i gesti nevrotici e i baci straripanti sulle pance di sconosciuti. Una routine in scala di grigi stravolta dall’arrivo ubriaco di “Willi-poi”, padre straccione piombato dal passato a disordinare l’equilibrio già imperfetto di questa natività disfunzionale, che darà una coloritura tutta nuova ai loro già fragili destini: all’incontro folgorante padre-figlio seguirà infatti una tessitura girovaga del loro rapporto tra le tinte crepuscolari dei Balcani, quando Vincent si intrufolerà di nascosto nel furgone del ritrovato papà e smezzerà con lui il brivido dell’esotica tournée a suon di zingarate, autostop e tetti arrangiati in pieno deserto.

Un road trip a due tra Slovenia e Croazia come fantasiosa cura all’incomunicabilità, un viaggio iniziatico un po’ western tra i palchi caserecci di Nova Gorica e Svetana,  Otocici e Sveta Marjia, in una delicata miscela di brio e malinconia dove la riscoperta del sé passa per l’incontro con ciò che è straniero: un uomo codardo e indurito dalla sregolatezza, spoglio di radici e affetti stabili, riscopre lo stupore della paternità mentre il figlio autistico digita sulla tastiera di un computer “vedo le parole ma non riesco ad afferrarle”; un figlio con una maturità “altra” scova le gioie del sesso e il sapore del sangue oltre la frontiera della sua comfort zone, rompendo il guscio ipersorvegliato di quell’idillio triestino claustrofobico e ovattato in cui è cresciuto; i notturni Elena e Mario, dalla loro, dovranno invece fare i conti con questo “rapimento” itinerante imbavagliando razionalità e imbracciando istinto, trascinati dalla follia energica di un figlio che come un “fool” Shakespeariano tutto travolge e costringe l’altro a riflettersi nella superficie specchiata delle sue ombre.

Un’avventura dal gusto surreale impreziosita da prove attoriali senza sbavature (nessun attore escluso), una sceneggiatura (quella di Umberto Contarello e Sara Mosetti) che non pretende altro se non fare breccia nelle nostre magre certezze, e una compilation stupenda a rifinire le pennellate scomposte di questa storia di disarmante umanità (vedi il brano Vincent di Don McLean dedicato alle turbe mentali di Van Gogh, da cui il nome del protagonista). Un film che è una fuga baciata dalla grazia, un’ode sincera al tenero grottesco che c’è nella diversità, che sa sedurre l’empatia dello spettatore senza cavalcare stucchevoli stereotipi e che, più di tutto, riesce ad emozionare con “l’artiglieria leggera” di un’innocenza libera dalla retorica. Da vedere, su Netflix.

Francesca Eboli

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Francesca Eboli

Spirito irrequieto made in Naplulè che colleziona fissazioni dal 1995: andare a cinema e a teatro da sola, scovare boutique vintage invisibili e bazzicare posticini senza tempo. Laureata in lingue, scrive, recita e nel tempo libero vaga tra i quattro angoli del mondo con Partenope in tasca. Vietato chiederle cosa vuole fare da grande.

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