Ogni mattina a Jenin è la storia di una Palestina che non si abbandona
Ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa ripercorre storicamente le tappe della questione israelo-palestinese.
La parola che più mi sento di associare alla narrazione di Abulhawa è delicatezza.
Dal primo capitolo, dal racconto lento e dettagliato, assolato e scandito della raccolta delle olive in un paesino a est di Haifa, ‘Ain Hod.
A partire dal 1941 l’autrice inserisce una datazione precisa in ogni capitolo, perché inevitabilmente la storia e la guerra colpiranno anche gli abitanti di quel paesino.
Una storia che ha come centro Amal.
Amal è la voce che narra del suo passato, o meglio, del passato della sua terra, un passato che lei non ha vissuto.
I genitori di Amal nel 1948 fuggono da una distrutta e lacerata ‘Ain Hod, di cui erano rimaste solo macerie, e si ritrovano a costruire una nuova vita nel campo profughi di Jenin.
“La Palestina ci possiede e noi apparteniamo a lei”
Ma il terrore e la consapevolezza della guerra colpisce anche Amal nel 1967. Costretta a rimanere chiusa in una fessura del pavimento con la sua migliore amica in attesa della fine degli attacchi.
Ma non intendo raccontare l’intera trama del libro, anche perché sarebbe superfluo.
Quello che Susan Abulhawa prova a ricreare è un senso di comunità, e poi, la necessità di partire da zero una volta che questo senso di comunità è andato distrutto.
È esattamente quello che accade ad Amal e alla sua famiglia durante tutta la storia: ritrovarsi per poi perdersi, all’infinito.
Un ciclo di eventi che sgretolano la fiducia di una ragazza che si ritrova ad essere adulta già da bambina, a fronteggiare la guerra e il terrore dell’occupazione israeliana. Una ragazza che si ritrova costretta a fuggire, ma senza mai dimenticare l’odore e il colore della Palestina.
Ogni mattina a Jenin è il racconto di un intero popolo tramite una famiglia. Alcuni tentano di ricominciare da zero in altro paese, altri combattono fino alla fine, altri ancora si rifiutano di abbandonare la terra che li ha visti crescere e altri muoiono con essa.
La famiglia di Amal è il simbolo di una Palestina lacerata che si vede privata giorno dopo giorno di case, terre e del suo stesso popolo.
“La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza fa piangere le pietre.”
Angela Guardascione
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