Tino Sehgal e un bacio tra le “cose” antiche
Ogni museo conosce la colpa e la violazione, è, sempre, autoritario e seducente, mai neutrale nel raccontare storie e nel costruire sequenze.
Negli ultimi trent’anni, i nostri musei, i musei di tutto il mondo si sono riempiti di pubblico a un livello tale per cui ormai ci si preoccupa quasi solo di questo e spesso l’atteggiamento disinvolto e annoiato del pubblico è lo stesso, ieri come oggi, nei riguardi dei grandi “feticci museali”.
Basta poter dire “ci sono stato e l’ho vista”.
Per esempio, al Louvre nessuno guarda più i Prigioni di Michelangelo mentre all’Accademia di Firenze tutti affollano la sala del David. Perché al Louvre corrono tutti verso la Gioconda? Ogni museo ha il suo “feticcio”. Così accade che il museo sia uno dei media comunicativi più potenti del nostro tempo.
Ma la gente non ha più tempo per guardare.
Per toccarsi e anche amare.
Guarda, consuma e dimentica, è la cultura di oggi.
E allora sarebbe conveniente, per esempio, l’utilizzo di accostamenti, di confronti, di suggestioni spaziali, di luci, non solo didascalie e parole; ma soprattutto emozioni.
Nei musei bisogna favorire l’incontro magico con gli oggetti e con il museo stesso. Bisogna dare ai visitatori meno parole e più esperienza emotiva e forse è meglio per un museo provocare, far pensare, costringere a vedere senza tanti aiuti e stampelle.
L’esperienza museale deve trasformarsi in esperienza sensoriale, cosicchè il corpo diventi padrone di quel luogo di domanda e spaesamento. Solo dove c’è un vuoto può esserci un pieno e solo grazie a un’esperienza vissuta a 360° gradi potremmo dire di aver visitato un museo.
Per esempio il piccolo mondo creato da Tino Sehgal ha una sua meccanica, una sua economia particolare, altra da quella dello spazio espositivo che lo circonda. Nel suo piccolo universo si compie una ricerca artistica particolare, che i visitatori della grande sala espositiva sembrano riconoscere, interessandosi alla scena, ponendosi delle domande, spesso a voce alta.
Tino Sehgal è prima di tutto un ricercatore, un indagatore del performativo in generale (quindi non solo della performance art), più che un semplice ideatore di performance, o un performer/coreografo.
L’analisi di Sehgal ha il punto d’inizio e d’approdo entrambi collocati nel gesto, un gesto sospeso, che non termina e non descrive un divenire, un gesto in sé. Questo punto di partenza e d’arrivo è reso possibile da un sistema d’incontri e relazioni, elaborato dall’artista attraverso un processo di lavoro con i performer affascinante quanto il risultato stesso.
I suoi performer sembrano respirare un’aria diversa da quella che respirano gli osservatori, e sono impermeabili ai loro sguardi. L’opera-evento viene trasformata dalla partecipazione indiretta dello spettatore in esperienza, un’esperienza collettiva che perdura soltanto nella memoria individuale, imprecisa e soggettiva, di ogni singolo testimone.
Incontrando The Kiss, gli spettatori potrebbero essere sorpresi di vedere fuori ciò che normalmente avviene nella privacy: un uomo e una donna sul pavimento chiusi in abbracci sensuali e baci. Vestiti in abiti civili, si muovono all’unisono. Con movimenti lenti ed erotici, cambiano continuamente posizione: ora sdraiati fianco a fianco, abbracciati, ora in ginocchio e baci, le braccia strettamente legate l’una all’altra, ora sedute, la donna parzialmente sul grembo dell’uomo, il braccio agganciato al suo collo mentre lui attira il corpo di lei e la bacia.
Ma questo non è semplicemente esibizionismo amoroso.
È, piuttosto, una presentazione coreografata da ballerini professionalmente preparati, che hanno lavorato con Sehgal per apprendere e mettere in scena questa particolare opera d’arte, o, come l’artista chiama tutti i suoi pezzi, questa «situazione costruita».
Ha modellato le coreografie di The Kiss ispirandosi ai ben noti baci e abbracci raffigurati nella scultura e nella pittura della storia dell’arte, da artisti che vanno da Rodine a Constantin Brancusi, da Courbet a Jeff Koons, trasformando forme e immagini stabili e statiche in due corpi in movimento, in un’esperienza viva, immediata e temporanea.
Il suo obiettivo è creare un contro-modello: fare qualcosa (una situazione) virtualmente dal nulla e lasciare che qualcosa scompaia, senza lasciare traccia.
Organizzare la scomparsa non è facile in un’era di dispositivi di registrazione onnipresenti, il che spiega perché la prima cosa che si vede alla performance tenuta al Guggenheim Museum è un segnale che vieta di scattare fotografie e fare registrazioni, così da liberare l’arte dalla sovrabbondanza della sovrapproduzione materiale.
Questa è la pratica standard di Sehgal.
Ma a meno che non si sappia il perché, il divieto si presenta come allettante.
Molto più interessante è l’elemento della durata. The Kiss è eseguito ogni giorno nello stesso posto durante le normali ore del museo, dal momento in cui le porte si aprono al mattino fino a quando chiudono di notte. Ogni coppia di esecutori – ballerini professionisti ingaggiati da Sehgal – appaiono in turni di circa tre ore, quindi sostituiti senza problemi da un’altra coppia. Come una scultura statica, il pezzo è continuamente visibile, ma anche in continuo movimento e cambiamento.
Quando la performance finisce, evapora.
Assistere a una performance è un po’ come accettare un appuntamento al buio: non puoi sapere quello che ti aspetta.
Potresti incontrare qualcuno che ti affascina per il suo aspetto, ma che ti delude appena inizia a parlare, o qualcun altro dall’intelligenza brillante incarnata in un corpo che lascia indifferente; potrebbe essere amore a prima vista, una primavera in un caffè a novembre, oppure i cinque minuti più lunghi della tua vita.
Ciò nonostante, sarà sempre un incontro reale, con un essere umano, che ti restituirà qualcosa, che sia di te o di lui stesso, e che avrà spostato le coordinate del tuo quotidiano per un attimo, instillandoti un germe di novità e idee che non pensavi neanche di avere.
Quello della performing art è sempre una specie di libero stato, un luogo effimero ma reale, dove gli spettatori e l’artista possono incontrarsi e sperimentare uno sguardo inedito sulle cose.
Nelle sue performance Tino Sehgal non è presente.
Non si tratta di lui.
I confini testati sono i nostri, non quelli dell’artista.
E il provvisorio, alla fine, è ciò che riesce meglio a mappare l’umano, i suoi sguardi, i suoi passi, la sua capacità di ridefinire ogni volta nuove regole.
Per vedere la performance clicca qui:
Serena Palmese
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