Zero Netflix e una pioggia di “cazzo bro’”
Il 21 aprile arriva su Netflix, dopo due anni di attesa, la serie Zero, creata da Menotti e ispirata al romanzo dello scrittore Antonio Dikele Distefano Non ho mai avuto la mia età.
Dopo Lo chiamavano Jeeg robot, Menotti ci riprova con il genere fantasy e ci propone Zero: storia che fonde un realismo di denuncia al genere fantasy di ispirazione Marvel.
Omar (Giuseppe Dave Seke), alias Zero dal numero che porta sulla sua maglia da basket, è un italiano di seconda generazione, proveniente da famiglia senegalese, ma nato e cresciuto a Milano, in un immaginario quartiere periferico, il Barrio.
Omar, aspirante fumettista, onesto e rigorosissimo rider di una pizzeria di provincia, per una pura casualità, per un inconveniente che ha qualcosa a che fare con l’inverosimile, conosce l’amore. Lo incontra e lo riconosce in Anna (Beatrice Grannò), una ragazza della Milano bene, ricca, stra-ricca, ambiziosa, che coltiva con impegno una brillante carriera da architetto.
Omar, nella complessa fase che dall’adolescenza traghetta alla matura età, scopre di avere un super-potere: quello dell’invisibilità. Inutile dire che, senza esitazione alcuna, senza la necessità di rifletterci, senza alcun trauma o perplessità, il suo potere viene ben accolto dal protagonista e dai suoi amici e utilizzato solo ed esclusivamente per il bene della comunità, del quartiere, della gente nera emarginata e discriminata.
Un bene superiore, un bene giusto, mai opportunistico, mai personale, sempre collettivo è quello che Zero e i suoi fraterni e indissolubili amici, conosciuti da una manciata di minuti, cercano disperatamente di perseguire, mettendo a repentaglio le loro vite, i loro legami, il loro già fragile futuro.
In una periferia degradata, in cui non c’è una carta che imbratti un marciapiede o un ladruncolo che faccia uno scippo, un gruppo di ragazzi, scambiandosi affetto fraterno in un loop infinito di “cazzo bro” e “cazzo fra”, mescolano le loro vite a quelle del crimine d’alto borgo, agli sporchi e sordidi interessi di un palazzinaro romano e di un malavitoso sudamericano.
Fin da subito dunque la serie, che vorrebbe testimoniare, squarciare il velo che copre il degrado e la deprivazione in cui si può avere la sfortuna di nascere, si trasforma in una serie in bianco e nero, in cui non c’è spazio per le sfumature, per i grigi, per i dubbi, per i compromessi.
I buoni sono buoni, i milanesi, i neri incazzati, giusti, saggi e lungimiranti; i cattivi sono cattivi, e sono i bianchi ricchi che provengono dal Lazio in giù. Tra questi una polizia prevenuta, ingiusta, miope, cieca difronte alle ingiustizie, al punto da essere l’unica, veramente l’unica, a non capire chi siano i buoni e chi invece i cattivi.
Mi sono chiesta, guardando Zero, come l’avrei giudicata se fossi stata un’adolescente, se fossi stata nera, se fossi nata in una periferia malfamata e criminale. Non lo so. Non sono più un’adolescente ahimè, non sono nera, sono nata e cresciuta in un paesino di periferia, ma questo certo non fa di me una che viene dal ghetto.
Eppure, nella totale ignoranza della realtà raccontata, ho visto in Zero una confusione enorme. Ci ho visto l’incapacità di raccontare la periferia italiana senza copiare la periferia americana, senza rubare il lessico, le immagini, la fotografia alla filmografia americana.
Ho visto un buonismo a tutti i costi, una valanga di politically correctche ha spazzato via quella misera eppur giusta realtà delle cose, quei compromessi, quelle bassezze che rendono piccolo e umano ognuno di noi, che esistono e rendono umano anche un supereroe.
Allora, nel mio a volte insensato razionalismo, nel mio continuo bisogno di trovare un sillogismo in tutto quello che leggo, vedo, ascolto, mi chiedo cosa questa serie ci volesse dire.
Voleva forse raccontare la povertà e il degrado? No, perché non ce n’è traccia. La discriminazione nei confronti degli immigrati? No, a meno che non vogliamo credere che in Italia gli unici a discriminare siano le forze dell’ordine. Voleva forse testimoniare la durezza di una vita ai margini? No, perché non è così rosea una vita ai margini e non può essere così lieve e spensierato sentirselo raccontare.
Zero ovviamente, come ormai ogni serie prodotta, ha un finale aperto che ci dice senza neanche un’ombra di dubbio che ci sarà una seconda stagione. Una seconda stagione che scioglierà quei 2-3 nodi lenti e fiacchi che la prima aveva lasciato irrisolti.
Vorrei davvero tanto, tanto, tanto dirvi che non vedo l’ora che arrivi la seconda stagione. Vorrei, ma non posso.
Valentina Siano
Vedi anche: Two Distant Strangers è il corto di Netflix candidato agli Oscar di cui avevamo bisogno