Halston, la parabola di un genio su Netflix
Netflix sforna nuove serie ad una velocità impressionante e, nonostante quelle di propria produzione difficilmente scendano al di sotto di un certo standard, non è sempre detto che queste siano capolavori.
Halston, nello specifico, si attesta su una sana e oraziana medietas, a metà strada tra una rivelazione e una serie non proprio riuscita, tra un capolavoro e un’occasione abortita.
Roy Halston Frowick, noto semplicemente come Halston è il protagonista geniale e dannato della nuova produzione Netflix, interpretato da un prevedibilmente talentuoso Ewan McGregor. Stilista di riferimento degli anni ’70, genio indiscusso eppure dimenticato della moda statunitense, assiduo frequentatore dello Studio ’54 assieme a nomi noti come Liza Minnelli, Bianca Jagger e Andy Warhol.
Halston, composta da un’unica stagione di 5 episodi della durata media di 45’, proprio per la sua durata si presta ad essere una di quelle serie che divori in non più una manciata di giorni, di cui compulsivamente guardi un episodio dopo l’altro.
Quelle serie brevi e compatte sono le più odiose, quelle più insidiose: se fatte bene, infatti, ti coinvolgono, ti trascinano e poi ti abbandonano miseramente, disperata, orfana dei loro personaggi, delle loro trame. E così per giorni ti aggiri raminga su ogni piattaforma a pagamento tu abbia, in cerca di qualcosa che ti faccia dimenticare quella storia, che non te la faccia rimpiangere.
Ad essere del tutto sincera, io, che non riesco a staccarmi facilmente dalle cose, nei giorni successi, come una qualunque fidanzata mollata, rivedo addirittura piccoli spezzoni o scene particolarmente toccanti di quella serie che mi ha brutalmente abbandonata.
Ecco, sperando di avervi fatto comprendere la sensazione che lasciano le brevi serie fatte bene, vi devo comunicare che tutto ciò non avviene con Halston. Poteva accadere, tutto faceva pensare che sarebbe accaduto di nuovo, che quel genio di uno stilista mi avrebbe sedotta e poi abbandonata, ma non è accaduto.
Halston è, infatti, una promessa mancata. Un personaggio che doveva essere conosciuto, una storia che doveva essere raccontata ma con il giusto spessore, con la sensibilità necessaria.
Nelle 5 puntate, forse poche per un racconto così dettagliato, Halston viene descritto in ogni aspetto della sua vita privata e pubblica: un’infanzia violenta, un passato doloroso che si ripercuote sul presente, una vita sentimentale torbida, una ritrosia congenita e inguaribile nei confronti dell’amore, una naturale predisposizione all’amicizia sincera, una carriera in ascesa e poi in inarrestabile discesa, la perdita della propria identità professionale, del proprio nome, del proprio marchio, la droga, un vago e istantaneo accenno all’HIV, la crisi e poi la rinascita.
Troppo, davvero troppo, paradossalmente, perché si possa capire davvero chi è stato Halston, cosa ha significato il suo genio per la moda statunitense, cosa avrebbe potuto dare se le sue scelte professionali fossero state diverse. Troppo per capire quanto davvero la sofferenza, il passato, gli eventi possono fare interferenza con una genialità pura, evidente, indiscutibile.
Allora si dovrebbe fare una distinzione tra una biografia e il racconto di un personaggio. Una biografia si reperisce su internet, in comodi file pdf, completa di tutto: date, nomi, eventi. Di un personaggio si sceglie di raccontare un aspetto, un taglio. Un personaggio si seziona, si scompone in mille pezzi, si frammenta in infinitesime parti: di queste solo alcune sono degne di essere raccontate, solo alcune fanno di una persona un personaggio.
Nonostante le aspettative siano state in parte deluse, Halston resta comunque una serie godibile, il racconto (non proprio fedele) di una vita, uno spaccato interessante della moda statunitense e degli anni ’70 che va conosciuto.
Valentina Siano
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