Lina Sastri è Medea per me
Al Campania Teatro Festival, nello scenario selvaggio e suggestivo del Giardino paesaggistico-pastorale del bosco di Capodimonte, Lina Sastri ci presenta la sua Medea.
Una Medea gitana nei costumi, napoletana nella lingua e nella musiche.
Poco o nullo il riferimento alla Grecia in una Medea che evidentemente vuole staccarsi da una collocazione storica e geografica per diventare il paradigma di una condizione umana.
La condizione infelice e disperata di una donna che, dopo aver perso ormai tutto, si aggrappa a ciò che resta: la vendetta.
Ho pensato a questa edizione di Medea per Campania Teatro Festival 2021, partendo dal testo, che avevo ridotto da Euripide, attingendo a varie traduzioni, essenzializzandolo, alcuni anni fa, perché è da tempo che volevo farlo. Scoprii già in quella occasione la modernità sorprendente delle parole di Euripide e la profondità assoluta della sua conoscenza dell’animo umano.
Lina Sastri
Questa condizione umana, questo miscuglio cupo e torbido di sentimenti brutali e ancestrali è ciò che rende questo mito non moderno, non attuale, bensì eterno. Eterno perché animato da sentimenti che non hanno tempo, partoriti dalla parte peggiore, animale di noi. Sentimenti che non c’è civiltà, non c’è progresso che possa cambiare, sopire o modellare.
L’amore tradito genera dolore, il dolore la vendetta, la vendetta la più barbara delle violenze. Medea è questo: un contenitore di passioni, di ancestrali e inconfessabili pulsioni che teoricamente poco hanno a che fare l’una con l’altra eppure tutte indissolubilmente legate tra di loro.
La Medea della Sastri tenta, riuscendoci, di mettere in scena quel confuso calderone di passioni che porta una donna umiliata e ferita a diventare, per pura sete di vendetta, l’assassina dei suoi figli.
Per me il dolore è gioia se tu non ridi
La vendetta di Medea è un sentimento totalizzante, accecante, una pulsione febbrile che spazza via ogni residuo di umanità, annulla ogni vincolo. La vendetta è più forte dell’amore, più forte del sangue, più forte dell’umana pietà.
Giasone, interpretato da Raffaele De Martino, nel melodramma non ha voce: la sua danza, i soli movimenti del suo corpo bene rendono ora l’insensibile noncuranza, ora l’ammaliante seduzione, ora lo strazio per la prole ormai perduta.
In scena un pianoforte, un dipinto di Kokocinsky che rappresenta una madre e i suoi figli, un danzatore-Giasone, una corifea, Medea.
Assenti dal scena sono le uniche vittime senza colpa di questa tragedia: quei figli maledetti di una madre odiosa, anime senza colpa usate come strumento di tortura, come arma per punire. Euridice, sposa inconsapevole, colpevole solo di avere ciò che Medea desidera: l’amore di Giasone, una famiglia, un futuro, la propria terra.
Il pubblico – così come la corifea interpretata da Federica Aiello – davanti ad una Sastri che urla con una voce piena di disperazione gli affanni, il dolore e l’umiliazione di Medea, si trasforma in uno spettatore inerme, impotente dinanzi all’orrore che si sta per compiere. Invano si può chiedere a Medea di desistere dai suoi piani, poiché nulla è più cocente di una rabbia che divampa.
E dunque una ninnananna lugubre annuncia che il misfatto è compiuto, che quel labile confine tra umanità e ferinità è stato irrimediabilmente oltrepassato.
Valentina Siano
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