Rifkin’s Festival “un sogno di celluloide” scritto e diretto da Woody Allen
La tanto attesa riapertura dei cinema in Italia è stata segnata dal ritorno di Woody Allen con Rifkin’s Festival.
La pellicola è stata presentata a settembre durante il Festival Internazionale del cinema di San Sebastián, ma è arrivata in Italia solo il 6 maggio, grazie all’intercessione di Vision Distribution.
Senz’altro il pluripremiato premio Oscar è uno dei migliori registi contemporanei e il suo ultimo film si mantiene su un buon livello. Ha un tono più dimesso e leggero del solito e un’atmosfera vacanziera e voyeuristica, ma non rinuncia alle profonde e caustiche riflessioni esistenziali che caratterizzano la sua cinematografia.
Rifkin’s Festival è una co-produzione spagnola, italiana (Wildside) e americana. È stato girato nel 2019 nella città basca di San Sebastián, ex capitale della cultura europea, ed è ambientato proprio durante il Festival.
Nel cast compaiono i nomi di Wallace Shawn (Mort Rifkin), interprete principale che ha più volte lavorato con Allen; Gina Gershon nel ruolo di Sue, la moglie di Mort; Louis Garrel, il vanesio giovane cineasta Philippe; Elena Anaya nelle vesti di una dottoressa.
Un altro nome importante è quello del direttore della fotografia, l’italiano Vittorio Storaro, che ha alle spalle tre premi Oscar e collaborazioni anche con altri cineasti importanti come Bertolucci e Francis Ford Coppola.
Storaro regala allo spettatore scenari variopinti da cartolina, accompagnando il pubblico in uno spensierato tour di San Sebastián tra vedute panoramiche, dettagli architettonici e urbanistici, interni sontuosi e spiagge assolate.
La leggerezza trasmessa dalla città stride con il cerebralismo ossessivo del protagonista che a differenza degli altri villeggianti non riesce a trovarvi pace.
Nel film si crea una doppia dimensione onirica: da un lato il sogno ad occhi aperti e a tinte cromatiche accese innescato dagli scorci cittadini, dall’altro i sogni surreali e in bianco e nero che trasferiscono nella rievocazione dei grandi film del passato le angosce di Mort. Allen e Storaro hanno saputo valorizzare sia la bellezza dell’ambientazione reale sia la ricostruzione delle storiche pellicole.
Il film è un flashback in cui Mort rievoca al suo psicanalista l’esperienza vissuta al Festival. Immediato è quindi l’accostamento alla grande narrativa psicologica novecentesca – Freud, Svevo, Joyce – e non è un caso perciò che sia così accentuata la componente onirica.
Mort Rifkin è un insegnante e critico di storia del cinema il quale ha abbandonato il suo lavoro per dedicarsi alla stesura di un “grande romanzo” che però non riesce a scrivere per le troppo alte pretese. Vorrebbe realizzare un capolavoro degno dei suoi modelli letterari – Proust, Dostoevskij – ma il progetto fallisce miseramente.
La moglie Sue è un’addetta stampa che si occupa di cinema. In occasione del Festival, segue l’esordiente e acclamato cineasta francese Philippe Garrel in gara con Apocalyptic Dreams, in cui si risolve ottimisticamente lo scontro israelo-palestinese.
Mort accompagna la moglie, ma il viaggio non ha nulla a che vedere con una romantica scampagnata di coppia. La relazione tra i due è agli sgoccioli e San Sebastián sarà l’arena della resa dei conti.
Mort ha nostalgia di New York, la sua musa e patria protettrice, e si sente un pesce fuor d’acqua circondato da vacui millantatori; invece Sue si adegua fin troppo bene al contesto, lasciandosi tentare dal fascino impetuoso del belloccio Philippe.
Così assistiamo a scene grottesche in cui ai manifesti amoreggiamenti tra i due, Mort risponde con un atteggiamento evasivo e finto disinteressato. È conscio di quanto stia accadendo sotto i suoi occhi, ma non riesce e probabilmente non vuole esternare la propria gelosia che, repressa, riaffiora nei sogni notturni.
Sue è una donna attraente e volubile che si lascia trainare dalla corrente del nuovo. Già reduce da un matrimonio precedente, non impiega molto a rimpiazzare anche Mort, sposato perché ritenuto brillante, ma che ora sfigura rispetto al giovane astro nascente Philippe.
L’atrofica e rassegnata accettazione di Rifkin porta al lento sfacelo del loro matrimonio. Mentre la moglie è ormai sulla strada per diventare ex, Mort girovaga solitario per la città, avvertendo dolori fisici immaginari che sono semplicemente il riflesso della sua ipocondria e dei suoi dilemmi inconsci. Un amico gli suggerisce una visita presso un dottore , che si scoprirà essere una lei: Jo Rochas. La conoscenza con questa bella e colta donna spagnola, frustrata e paralizzata da matrimoni fallimentari e dall’insoddisfazione per la propria vita, alleggerirà la permanenza di Mort a San Sebastián. Inverosimili e improvvisi malanni diventano il pretesto per rivederla nella speranza di instaurare un legame e…
Cosa accade? Già abbiamo rivelato troppo, almeno questo particolare ve lo risparmiamo alla visione!
In sostanza si tratta di una commedia sentimentale scanzonata in stile alleniano che affronta con sguardo disincantato e ironia cinica i grandi temi umani stereotipati (amore, morte, ispirazione artistica) e le dicotomie passato inafferrabile / presente incerto, giovinezza / vecchiaia, genialità / mediocrità. Il film è stato definito un’autobiografia senile e, effettivamente come suo solito, il regista ha proiettato il proprio io sul personaggio principale logorroico, cerebrale, nostalgico, sarcastico, nevrotico.
Il calderone di classici filmici passati in rassegna sono un omaggio del cineasta verso i suoi predecessori e maestri, posti in contrasto con la cinematografia contemporanea rappresentata al Festival, di cui Philippe è l’incarnazione. Il vero tema portante del film non è tanto l’amore romantico, quanto l’amore per il cinema che è anche l’unico appiglio soddisfacente per Mort.
Quest’ultimo disprezza il film di Philippe perché lo ritiene essere un prodotto commerciale spacciato per arte che si illude pretenziosamente e superficialmente di risolvere la questione israelo – palestinese con un semplice film (ironia della sorte si affronta il tema proprio un anno prima della ripresa del conflitto!). Per Mort questo proposito è fantascientifico e ridicolo rispetto al vero cinema, cioè quello europeo d’autore in cui le tematiche sociali venivano affrontate con impegno e serietà.
Ed ecco che il Festival di Rifkin prende corpo nelle scene riprese dalla Novelle Vague (Un uomo una donna, Jules e Jim, Fino all’ultimo respiro), da Bergman (Persona, Il posto delle fragole, Il settimo sigillo), da Fellini (8½), da Orson Welles, unico americano citato (Quarto Potere) e da Bunuel (L’angelo sterminatore). Particolarmente esilarante la ripresa de Il settimo sigillo, in cui Christopher Waltz nei panni della morte comunica al protagonista che dovrà attendere ancora un po’ per la sua dipartita e gli raccomanda di condurre uno stile di vita sano per rimandare il più possibile il loro secondo e definitivo incontro.
La critica ritiene che l’ultimo di Woody Allen non sia al pari con altre sue opere precedenti ambientate in Europa, con le quali condivide il tema dell’io fisicamente e mentalmente errante (Vicky Christina Barcelona e Midnght in Paris).
Pur non essendo un capolavoro, Rifkin’s Festival è un piacevole divertissement capace di offrire anche momenti di riflessione. Il sofisticato impianto metacinematografico è il punto di forza che rinvigorisce la trama scarna e che sazia la ghiottoneria degli amici cinefili; chi non ha già visto i classici citati potrebbe invece trovarsi disorientato.
Non è un film che vi segnerà la vita, ma funziona e soprattutto se siete fans di Woody non vi dispiacerà “rincontrarlo”.
Giusy D’Elia
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