Intervista a Francesco Lettieri: come sopravvivere al tuo sogno che si avvera
Era una giornata caldissima di luglio quella in cui ho ascoltato per la prima volta una canzone di Francesco Lettieri.
Ero in metropolitana ed è partita su Spotify La mia nuova età, il brano con cui Francesco ha vinto Musicultura nel 2019.
Alla seconda strofa ero sorpresa ed emozionata, a metà canzone mi è scesa una lacrimuccia e alla fine la signora di fronte mi stava offrendo un fazzolettino perché avevo iniziato a inzuppare di brutto la mia mascherina.
E così che ho deciso di incontrarlo, per parlare un po’ della sua musica, del suo percorso d’artista napoletano e dei suoi progetti per il futuro.
Come ti sei approcciato alla musica? E qual è la prima cosa che ti ha fatto venire voglia di scrivere una canzone?
«Alla musica mi sono avvicinato da piccolissimo, avrò avuto cinque o sei anni. A casa avevamo un pianoforte a muro e un giorno, che ancora ricordo benissimo, entrai in stanza mentre mia mamma suonava il notturno n. 9 di Chopin.
Ne fui colpito e le dissi che volevo imparare a suonare anch’io. Lei mi iscrisse a un corso di pianoforte con Dario Candela, un maestro bravissimo, con cui ho studiato per due anni. Poi purtroppo ci trasferimmo a Lago Patria e interruppi le lezioni.
Da allora continuai a suonare un po’ da autodidatta, ma senza troppo impegno. La mia passione per il pianoforte è rinata poi al liceo. Fino a quel momento avevo sempre pensato che al pianoforte si potesse suonare solo musica classica. All’inizio del liceo, invece, conobbi questo amico che mi suonò “Le onde” di Einaudi e ne rimasi profondamente incantato. Mi si aprì un mondo. Da quel momento iniziai a suonare a orecchio qualsiasi canzone mi capitasse di sentire, le colonne sonore dei film e cose del genere.
La mia prima composizione si chiamava “Sulle ali di un gabbiano” e l’ho scritta per una ragazza. Passai una settimana intera a studiare come scrivere uno spartito, perché non avevo studiato musica quindi non avevo idea di come fare. Poi impiegai un’intera notte a scriverlo, prima a computer e poi dovetti ricopiarlo a mano perché si era rotta la stampante. Arrivai a scuola stanchissimo, ma molto emozionato, e glielo regalai. Lei mi guardò malissimo e mi disse “E io che me ne faccio? Mica so suonare!”. È stato bruttissimo.
Da quel momento in poi però non ho mai smesso di comporre, e verso la fine del liceo partecipai a un concorso che si chiamava “Settima nota rock contest”. Erano tutte band rock e io sembravo totalmente fuori luogo con le mie composizioni solo piano. Però vinsi. Il primo premio era la possibilità di incidere un CD, che presentai al teatro della mia scuola.
A quella presentazione venne un signore che mi fece suonare con Marco Zurzolo, un grandissimo sassofonista. Fu un’emozione indescrivibile. Lì un suo maestro mi propose di studiare piano jazz e poi sono entrato in conservatorio. Ho iniziato a scrivere i testi per la mia musica nel 2015. In realtà, prima ancora di comporre testi io scrivevo racconti e romanzi, perché da piccolo volevo fare lo scrittore. Da bambino lessi questo romanzo di Richard Bach, intitolato “Un ponte sull’eternità”, che mi provocò un’impressione fortissima, tanto che pensai che era proprio quello che volevo fare da grande: suscitare nelle persone emozioni come quelle che stavo provando in quel momento».
Qual è il musicista che pensi ispiri di più la tua musica?
«Sicuramente sono influenzato tantissimo dalla musica classica, soprattutto Chopin e Bach. Poi ho studiato jazz, anche se ho iniziato a capirlo davvero solo negli ultimi cinque o sei anni, e un pianista che mi influenza tantissimo è Brad Mehldau. Per quanto riguarda i cantautori, ascolto tantissima musica italiana, anche perché scrivo in italiano, e quello che più che altro spero mi influenzi è Dalla. Lui è il mio mito, insieme a Bersani. Poi mi piacciono tantissimo Caparezza, Daniele Silvestri, ma sì… Dalla e Bersani sono quelli che mi influenzano di più semplicemente perché li ascolto tanto».
Parliamo un po’ del tuo processo creativo: scrivi a mente fredda e razionale o travolto dalle emozioni del momento?
«Mente fredda mai. Mi è capitato solo quando mi hanno commissionato delle musiche per cortometraggi o opere teatrali, allora lì ho dovuto fare uno studio più razionale. Invece, per quanto riguarda le mie canzoni, succede che all’improvviso mi viene in mente un motivo che poi pian piano vado ad approfondire.
Per esempio, con “La mia nuova età”, il brano che ho portato a Musicultura, mi è venuto in mente il motivo iniziale già con le parole, mentre ero in macchina al casello della tangenziale. Poi diventa quasi un lavoro di archeologia. Scopro un frammento e lo suono a ripetizione, quasi in maniera ossessiva, finché non riesco ad ampliarlo a destra o a sinistra. Oppure a volte succede che nasce l’idea musicale da sola e i cerco di vedere che cosa voleva dirmi. Credo che questo sia il bello della musica, che parla a livello inconscio anche a te che la componi. Quel motivo che mi è venuto in mente non l’ha fatto a caso mentre ero al casello, ma perché dentro di me chissà quali pulsioni si stavano scontrando, chissà a cosa stavo pensando, forse proprio a mio padre che moriva – perché è quello di cui parla la canzone – e pian piano, indagando quel motivo, ho capito che cosa il mio cervello stava cercando di comunicarmi. Altre volte capita anche che sono molto emozionato per qualcosa mi metto al piano per vedere cosa riesco a tirar fuori da quell’emozione».
Quando ho ascoltato “La mia nuova età” per la prima volta ho pianto. Tu come fai a suonarla senza piangere?
«Anche io ho pianto la prima volta che l’ho suonata. La cosa bella è che quella canzone la scrissi dopo essermi iscritto a Musicultura e avevo presentato un’altra canzone, quindi non pensavo di mandare anche quella. Poi, per fortuna mi chiesero una canzone in più. Il problema era che non avevo il coraggio di farla ascoltare a mio padre. Alla fine, gliel’ho fatta sentire al suo compleanno. Ho radunato tutta la mia famiglia e ho detto: “Vi devo far ascoltare una canzone in cui papà muore”. Alla fine della canzone piangevano tutti tranne mio padre. A mia mamma in lacrime ho detto: “Non essere gelosa, poi scrivo una canzone in cui muori pure tu”.
“La mia nuova età” muove sempre qualcosa dentro di me e ci sono dei momenti in cui sono più sensibile a questa tematica. Per esempio, da poco è morto il padre di un mio amico e l’ho suonata a casa sua. È stato molto difficile.
Quindi sì, è una canzone che mi emoziona moltissimo, però quando sono sul palco succede qualcosa di strano. Sono dentro la canzone, ma allo stesso tempo sono fuori, non so come spiegarlo, è una sensazione strana. È come se quell’emozione si sublimasse in qualcos’altro, ed esprimerla attraverso la musica basta a sfogare quello che provo, così non sento il bisogno di piangere».
Come è stato vincere Musicultura?
«Bello. Molto più che bello. Anche se è stata una cosa critica… Io ho cominciato a scrivere canzoni nel 2015. In realtà, il vero motivo per cui ho iniziato a scrivere canzoni è perché una ragazza mi aveva fatto soffrire e ho composto “Ama il prossimo”, che può sembrare qualcosa di biblico, ma non lo è.
La racconto perché ormai questa canzone non mi piace più, quindi non uscirà mai. Per tutto il testo dico “Ama con intelligenza, mantieni un po’ il distacco”, insomma, tutto il contrario di come sono io che mi fiondo nelle cose con tutto me stesso. Poi alla fine dico “Ama, ma non amare me. Ama il prossimo”, ovvero chi verrà dopo di me.
Quando ho finito di scrivere questa canzone ho iniziato a indagare il mondo del cantautorato e dei premi e ho scoperto Musicultura. Ho sognato di vincerlo per anni. Era il mio sogno. Non Sanremo, ma Musicultura. Secondo me è il concorso, non dico più visto perché Sanremo è Sanremo, ma il più bello. La giuria formata da Roberto Vecchioni, Tosca, Samuele Bersani, poi ha quell’arena bellissima… Quando sono arrivato lì lo avevo studiato tanto, guardato centinaia di video su Youtube e mi ci ero già immaginato tantissime volte su quel palco. C’è stato un momento, dietro alle quinte, mentre Natasha Stefanenko mi presentava, in cui ho provata così tanta ansia che ho pensato “adesso muoio”. Poi sono tornato lucido, ho guardato il palco e mi sono resa conto di essere arrivato proprio dove avevo sognato per anni, e mi sono sentito all’improvviso calmissimo.
Quando ho vinto è stato bellissimo, però allo stesso tempo mi sono sentito completamente spaesato. Avevo raggiunto quello che per me era l’obiettivo della vita e ho pensato: “E adesso che faccio?”. E allora mi sono detto: “Vabbè, proviamo Sanremo!”».
Quindi adesso il tuo obiettivo è di andare a Sanremo?
«Sì, per ora sì. Per due motivi. Sicuramente perché è una vetrina importante. Sanremo può aprire tantissime porte, così come se ne sono aperte tante con Musicultura, ma Sanremo ha un’esposizione mediatica maggiore. Il secondo motivo è che sono legatissimo al Festival perché io e la famiglia abbiamo la tradizione di guardarlo ogni anno tutti insieme. Negli ultimi tempi questa cosa si è un po’ persa perché mamma, da quando faccio il cantante, si arrabbia perché non sono su quel palco e dice che gli altri sono scarsi.
Poi ho anche altri progetti. Negli ultimi due anni ho scritto tantissime canzoni, quindi vorrei arrivare a Sanremo e poi fare uscire un CD».
L’ultimo singolo uscito, “Caro me del futuro”, farà parte di un album?”
«Sì, purtroppo il progetto è stato bloccato dal lock down e l’etichetta è un po’ ballerina, perché sta avendo moltissimi problemi a causa del Covid. “Caro me del futuro” la scrissi lo stesso anno in cui ho scritto anche “La mia nuova età” ed è la canzone con cui sono arrivato in semifinale a Sanremo».
Io “Caro me del futuro” e “La mia nuova età” le trovo simili da un punto di vista tematico. In entrambe immagini un te del futuro, in uno parli al tuo passato. È un tema che ti sta a cuore per un motivo in particolare? Immagini spesso come sarai in futuro?
«Sì, l’ispirazione viene sempre da quel libro, “Un ponte per l’eternità”, che ho letto da bambino. In quel libro, il protagonista, in certi momenti un po’ onirici, ma reali nella finzione del romanzo, incontrava i suoi possibili futuri e i suoi possibili passati. A un certo punto scriveva una lettera a sé stesso del futuro. Da quella lettura ho iniziato a pensare a come mi vorrei vedere io tra trenta o quarant’anni, mi sono chiesto che cosa direi al me del passato. E spero che mi direi “Sono fiera di te”».
Qual è l’artista col quale ti è più piaciuto suonare?
«La cosa più bella che mi è capitata di fare è stato il concerto di Lino Cannavacciuolo. Lui è sempre stato per me un riferimento musicale, è un mito, un violinista incredibile. Ho avuto la possibilità di fare questo concerto con lui tre anni fa, nel 2018. Tra l’altro è stato bellissimo suonare con lui, ma allo stesso tempo fu un’esperienza terribile perché la notte prima avevo avuto la febbre a quaranta e il giorno del concerto a stento mi reggevo in piedi.
Un’altra esperienza bellissima è stata con Adel Tirant, una cantante e attrice siciliana bravissima, con una voce incredibile. Mi ha chiesto di arrangiare una delle sue canzoni per solo piano e sono stato onorato di poterlo fare e di suonare nel disco».
E qual è l’artista con cui vorresti collaborare?
Il mio sogno sarebbe suonare con Samuele Bersani e Giovanni Truppi.
Com’è fare musica a Napoli?
«Uno schifo. Io ho partecipato ai concorsi non perché mi piaccia la competizione, ma per avere una vetrina di esposizione. Poi li ho vinti e ne sono stato contento, ma il mio obiettivo era quello di farmi conoscere un po’. E ho costruito così il mio cammino, ed è stato grazie al primo concorso che ho potuto fare un CD e sempre grazie ai concorsi che ho avuto la possibilità di suonare molto anche al nord Italia e mi sono reso conto che ovunque è meglio di qui.
Il trattamento che ho avuto lì, a qualsiasi livello, sia per quanto riguarda il riscontro del pubblico, sia dal punto di vista economico, è sempre stato migliore rispetto a qui. Qua è una guerra tra poveri, ci sono poche possibilità di ospitare concerti grandi in full band, e in più si punta sempre su quello che giù funziona. Al nord molti ragazzi vanno ad ascoltare artisti che non conoscono, qua invece i gestori dei locali non vogliono rischiare, chiamano solo i gruppi che sanno che hanno seguito e non c’è nessuno che si prenda il rischio di provare una nuova proposta artistica. Se sei un nuovo cantautore a Napoli non ti fanno suonare a meno che non puoi assicurare che sarai tu a portare persone. Poi c’è un monopolio artistico assurdo, infatti suonano sempre gli stessi gruppi».
Tra gli altri musicisti napoletani c’è solidarietà o ci prendiamo a capelli per avere il palco?
«Questa è una questione spinosa. Perché, che cos’è la solidarietà? È condividere la canzone degli altri sui social? Se è così, anche io posso sembrare spocchioso. Una cosa mi deve davvero piacere tanto perché io la condivida. Altrimenti uso i social come pubblicità dei miei eventi o per postare qualcosa che penso, ma non credo che siamo tutti per forza una grande famiglia e che per questa cosa devo necessariamente condividere tutto quello che fanno gli altri musicisti.
Io condivido solo quello che mi piace veramente.
Invece, in questa città ho notato la tendenza o a fare la guerra dei poveri, ovvero tu fai una cosa e io non la condivido anche se è bella, o l’estremo opposto: siamo una famiglia di mediocri, ma non fa niente se la tua musica non mi piace, devo far vedere che siamo tutti amici per cui io condivido il tuo e tu condividi il mio sempre e comunque. Quindi finisce che si crea una folla che fa pensare: “Ah questi sono bravi”, quando in realtà non stanno facendo altro che applaudirsi tra loro».
Qual è il modo di riuscire a uscire da Napoli e suonare in un panorama più ampio?
«Secondo me ci sono tre vie. La prima sicuramente è andare via fisicamente. So da alcuni amici che Milano ha molti spazi che possano accogliere un artista. Milano, Roma, e per chi fa musica strumentale forse anche fuori dall’Italia. Un’altra via sono sicuramente i concorsi, quella che ho scelto io. Ti danno buone opportunità di suonare in giro. E l’ultima è online.
Riuscire a crearsi una community attraverso un canale Youtube è un ottimo trampolino di lancio. È una costanza che io non riesco ad avere, perché spesso ho pensato di postare video, ma alla fine non l’ho mai fatto. Per esempio, a me piace tantissimo vedere video di altri artisti in cui parlano di come è nata una canzone o del loro lavoro in generale.
Ormai le etichette non investono più nella promozione dei cantanti, puoi essere bravissimo, ma se hai 0 follower nessuno si prenderà il rischio di investire su di te. Se invece hai tanto seguito online, hai anche l’indipendenza giusta per scegliere l’etichetta adatta a te. Giovanni Truppi, per esempio, ha fatto così.
Questi sono i tre cammini, perché purtroppo non c’è aria di cambiamento nella mentalità degli organizzatori di eventi o dei gestori dei locali o delle etichette. Loro guadagnano i soldi che devono guadagnare, quindi nessuno riuscirà mai a smuoverli».
Siamo arrivati all’ultima domanda, per chiudere ti chiedo: qual è, secondo te, la prima canzone che qualcuno che non ti conosce ancora dovrebbe ascoltare per capirti?
“Ho un sacco di voglie”, secondo me. È quella che più sento mia.
“Ho un sacco di voglie” è anche una delle mie canzoni preferite di Francesco Lettieri, e concordo nel dire che rappresenta bene un po’ tutta la sua musica: dolce, ma allo stesso tempo ironica, tagliente e persino divertente. Insomma, la sua musica gli somiglia un bel po’.
Se ancora non lo conoscete, consiglio di cliccare su link e iniziare subito. Mi ringrazierete poi.
Nadia Rosato
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