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Olimpiadi 2020 e sessismo sportivo. Le atlete dicono Stop!

Che gli abbigliamenti delle atlete siano fonte di disagio e imbarazzo per molte di loro è un dato di fatto.

Ecco perché, sul modello delle giocatrici di beach-volley norvegesi, anche alle Olimpiadi molte atlete stanno attuando una ribellione

È sicuramente noto a tutti il fenomeno che ha visto per protagonista la squadra femminile norvegese di beach-volley che, durante una partita del torneo Euro 2021, si è rifiutata di indossare i bikini come divisa, decidendo piuttosto di indossare degli shorts, più comodi e soprattutto meno “imbarazzanti” per le atlete che, ad indossare dei bikini striminziti si sarebbero sentite a disagio e nude. 

Gesto coraggioso e di esplicita ribellione da parte di un gruppo di donne che sente la necessità di farsi rispettare e di usare i propri corpi come meglio crede, senza che nessuno imponga loro delle regole. 

Questo gesto però, purtroppo, non è restato impunito e le atlete hanno dovuto pagare una multa per aver violato il codice di abbigliamento richiesto per la gara. Insomma, si è deciso di chiudere entrambi gli occhi e di voltare la faccia ad un problema che, ormai sta diventando sempre più comune: la sessualizzazione nello sport a danno delle atlete donne. 

In sostanza le atlete norvegesi, nonostante stiano lottando da anni per far riconoscere i propri diritti in quest’ambito, non hanno facoltà di scegliere liberamente cosa indossare per gareggiare senza sentirsi troppo esposte e in imbarazzo. 

Questo argomento, però, non ha certo lasciato tutti indifferenti, tant’è che è sbarcato persino alle Olimpiadi di Tokyo dove le protagoniste sono state le ginnaste tedesche. Atlete che hanno fatto parlare di sé per il cambio di look inaspettato.

Le ragazze, infatti, seguendo la scia delle atlete norvegesi, hanno rifiutato di indossare il solito e scomodissimo body, prediligendo una tuta lunga fino alle caviglie e di sicuro più comoda. 

Il body, infatti, come testimoniano le ginnaste, sarebbe scomodo proprio perché durante le esibizioni rischia di spostarsi e creare imbarazzo nelle atlete che potrebbero addirittura arrivare a commettere errori nella performance. Ciò non appare esagerato o assurdo soprattutto se si pensa al fatto che, proprio nel caso in cui il body dovesse spostarsi, le atlete da regolamento non potrebbero in alcun modo aggiustarlo, pena la sottrazione di diversi punti. 

Una situazione assurda e vergognosa che vede le atlete letteralmente costrette ad indossare divise che le fanno sentire esposte e fuori luogo. Ma, più di questo, il vero problema è che queste atlete si sentono violate, usate e non rispettate in quanto donne

Le parole della ginnasta tedesca Elisabeth Seitz dovrebbero farci riflettere su un problema che va molto al di là della questione sportiva: «Volevamo dimostrare che ogni donna, che ognuno, dovrebbe decidere cosa indossare».

La questione non tocca solo l’ambito sportivo, ma tocca disparati altri ambiti, andandoli a danneggiare fortemente. Tra i tanti troviamo indubbiamente l’identità (le donne si sentono svantaggiate proprio in quanto donne) e la religione (basti pensare alle atlete di fede musulmana senza bisogno di spiegarne il motivo).

Un problema, come possiamo ben capire, che va ricercato nelle radici di una cultura che, ancora nel ventunesimo secolo, è spaventosamente e terribilmente patriarcale

Anna Illiano

Illustrazione di Sonia Giampaolo

Anna Illiano

Anna Illiano (Napoli, 1998) è laureata in Lingue e Letterature euroamericane e si sta specializzando in editoria e giornalismo presso La Sapienza di Roma. Ha un blog personale “Il Giornale Libero” ed è articolista per il magazine La Testata. Dal 2021 collabora occasionalmente col giornale “il Post Scriptum”

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