Positività tossica e il lato oscuro del “good vibes only”
Non tutti la conoscono, ma tutti l’hanno vissuta almeno una volta: un mindset positivo diventa “tossico” quando si cerca di rimanere sempre e comunque “ottimisti”, anche nelle situazioni più difficili.
Quante volte ci siamo sentiti dire “guarda il lato positivo!” oppure “scegli di essere felice” o ancora “non serve a niente essere negativi”?
Probabilmente, volendo sollevare il morale di qualcuno in difficoltà, noi stessi abbiamo abusato di queste “frasi motivazionali”.
Lo scorso anno, inoltre, lo slogan martellante “andrà tutto bene” durante la prima ondata pandemica non ha fatto altro che incentivare questa tendenza alla “positività a tutti i costi”.
Ma quanto può essere effettivamente benefico un atteggiamento di questo tipo?
Solo negli ultimi anni diversi psicologi hanno cominciato a parlare di “toxic positivity”, mettendo in luce le criticità della “positive psychology”, un metodo basato sulla valorizzazione esclusiva di emozioni ed esperienze positive. Secondo gli studiosi Martin Seligman e Mihaly Csikszentmihalyi – promotori di questo approccio – ogni persona dovrebbe sviluppare un senso di ottimismo generale nei confronti della vita, allontanando qualsivoglia forma di negatività.
La presenza di aspetti benefici è indubbia: valorizzando se stessi, l’autostima aumenta e si sfruttano i propri talenti, allo scopo di vivere una “vita significativa”, fatta di felicità e benessere. Ma cosa succede quando la realizzazione personale dipende da fattori esterni, socialmente riconosciuti e universalmente apprezzati?
E se a far male fossero proprio le #goodvibes?
Durante la pandemia, è diventata un’urgenza tenere su il morale delle persone. Nonostante gli aggiornamenti quotidiani sull’aumento dei contagi, i profondi mutamenti sociali in atto, lo stravolgimento di vite che non sono più tornate alla normalità, per sconfiggere il virus sembrava indispensabile mantenere un mindset positivo.
È stata osservata, dunque, una tendenza generale a nascondere i sentimenti negativi che questo trauma collettivo ha provocato: ma un eccesso di ottimismo durante una crisi può invalidare le emozioni di una persona, portando a successivi sentimenti di vergogna, colpa e imbarazzo per le “emozioni negative”.
Inoltre, questo voler essere “positivi a tutti i costi” non è un atteggiamento nuovo. Le descrizioni delle foto sui vari social recitano sempre i soliti hashtag: #staypositive, #solocosebelle, #behappy, #goodvibesonly. Si vogliono mostrare, insomma, solo gli aspetti positivi della propria vita. Niente di condannabile o strano. Ma il rischio che si corre è quello di creare un fantoccio, un alter ego social.
La pagina personale di chiunque su Instagram sembra dover rispettare degli standard fissi. Influencer e marketing promuovono continuamente la bellezza, la ricchezza, il benessere, comunicando implicitamente che hai bisogno di questi ingredienti per essere felice.
Ovviamente non sono i social network ad aver creato la positività tossica, ma l’hanno sicuramente alimentata. Il numero di like o di follower genera competizione e sentimenti di inferiorità e insoddisfazione rispetto agli altri profili virtuali, che ostentano a loro volta una vita perfetta e, soprattutto, irreale. La stessa applicazione di filtri per modificare la propria fisicità o il proprio volto è sintomo del meccanismo distorto che sta alla base delle dinamiche social. Ciò sta creando danni evidenti all’autostima di adolescenti, già normalmente alle prese con l’accettazione di sé.
Piccoli e timidi passi sono stati mossi per sensibilizzare su questi temi, per rendere meno “tossici” i comportamenti adottati dagli utenti sul web. Ma la strada è ancora lunga. Poco importa sapere che le cose pubblicate dagli altri non sono reali: noi le vogliamo comunque, perché è con quelle cose che il mondo sembra volerci vedere.
Frasi che dovremmo smettere di ripetere (e ripeterci)
“Non ci pensare, resta positivo!”
“Elimina la negatività”
“Potrebbe andare peggio”
“Piangere non serve a niente”
“Pensa a chi sta peggio di te”
Quante volte abbiamo detto (o ci siamo detti) queste frasi? Giudicare noi stessi perché proviamo dolore, tristezza, gelosia – che fanno parte dell’esperienza umana e sono emozioni transitorie – porta a quelle che vengono definite “emozioni secondarie”, come la vergogna, che sono molto più intense e deleterie.
La positività tossica è una strategia di evitamento utilizzata per allontanare e invalidare qualsiasi disagio interno. Ma quando eviti le tue emozioni, in realtà, causi più danni. Evitare o sopprimere il disagio emotivo porta ad un aumento dell’ansia, della depressione e un peggioramento generale della salute mentale.
Non possiamo, come esseri umani, scegliere solo le emozioni che vogliamo avere. Capire che non esistono sentimenti positivi o negativi, che essere giudicati da una foto profilo non è la fine del mondo, che piangere per una situazione difficile non è un comportamento da “persona debole” è il primo passo per sopravvivere. Ed è un bene accettare che “it’s okay not to be okay”.
Elena Di Girolamo
Vedi anche: Hai l’ansia? Non sei il solo