“Sembrava bellezza” e invece era un mucchio di ossa. I bulimici anni ’80 nel romanzo di Teresa Ciabatti
Lanciarsi nella prosa della Ciabatti è un’apnea tra incubi d’inchiostro che ti inseguono spietati, mozzano il fiato e ti inchiodano patologicamente a confessioni rotte, sincopate, fulminanti.
Un flusso verbale impressionista e affilato in cui è facilissimo non accomodarsi.
E in Sembrava bellezza (romanzo finalista Premio Strega 2021 scartato all’ultimo dalla cinquina) il respiro tuo, lettore (mi darai ragione) si fa sempre più corto tra gli antri freddi e acuminati di questa storia di arti amputati e teste mozzate, racconto di giovinezze rotte e torturate che è il teatrino dell’adolescenza nel Quartiere Parioli, anni Ottanta.
Protagonista è una scrittrice di provincia finalmente investita dai bagliori del successo dopo una vita spesa a comparsare, anonima e grassa, nelle vite luminescenti dell’aristocrazia capitolina.
Come la stessa Ciabatti trapiantata da Orbetello a Roma, l’io narrante è una grezza ragazzona con zaino a koala in spalla, mascherone e orecchini-lampadario ai lobi, fenomeno da baraccone in un esercito di Adoni e Veneri perfette, soprattutto se nude, soprattutto se struccate.
Dopo trent’anni l’incontro con Federica, compagna di traumi ossessionanti in quella primavera liceale dove loro due, fiori sbagliati cresciuti al margine spoglio dell’inadeguatezza, progettavano di fare stragi, di lanciare bombe su quelle mandrie di giovani eterei e impossibili da cui elemosinavano sguardi, inviti ai circoli festaioli spiati sempre solo da lontano, dietro alle sbarre dei cancelli.
Al centro di questo feroce viaggio temporale insieme intimo e generazionale, la sagoma abbacinante di Livia (sorella di Federica), una specie di madonna triste e ultraterrena, cosce da capogiro, lunga chioma bionda e pelle bruciata dai raggi UVA delle lampade autoabbronzanti (all’epoca lusso di pochi, pochissimi), sogno erotico e maledetto di un quartiere intero, di donne e uomini, vecchi pervertiti e ragazzini in crisi puberale.
Livia che era santino fluorescente e difettoso di una generazione perduta, “di ex giovani psicanalizzate”, non amate, anaffettive e bulimiche, tormentate da ambizioni sinistre, inquiete a rincorrere schermi, palchi, specchi in cui riflettersi e risplendere, sbozzarsi in volo come farfalle luminose.
Lei che era il fulcro attorno a cui gravitava una schiera dolente di ragazze interrotte, pulsanti di desideri disfunzionali e proiezioni artificiose, finisce intrappolata per sempre in quella giovinezza spezzata dopo un tragico incidente che la condannerà a uno stato eterno di demenza infantile, di grazia fanciullesca attaccata alle morbosità del sesso anche a cinquant’anni.
Intorno a questo trittico allucinogeno di donne, la danza verbale di un’autobiografia menzognera (c’è tanta aderenza tra fatti narrati e traumi vissuti sulla pelle, confessa da principio l’autrice) in cui brandelli di falsa verità si mischiano al reale, indagando con lingua spregiudicata la devozione malata alla bellezza che infestava quell’epoca, il dialogo apparenza-coscienza di creature metà ninfe metà mostri, relazioni adulterine (la protagonista divorziata e arraffa-amanti in piena menopausa), rapporti madre-figlia disturbati e desideri d’espiazione scoloriti, a distanza di decenni.
Quanto può essere lacerante il gioco della memoria? Qual miglior paradosso di voler aderire alla bellezza affettata dei canoni adolescenziali e allo stesso tempo ambire all’irripetibile, all’unicum? Quanto è sottile il confine tra realtà e desiderio, troppo spesso falsato da impressioni lesionate, deformate? Quanta verità c’è nella percezione? E il dolore? E la gioia? In quali anfratti emotivi si annidano? Sono uguali per tutti o siamo destinati a scovarli in luoghi diversi, a correre su binari paralleli che mai si incroceranno?
E più di tutto, questa bellezza così fuggevole e vacua e insieme carnale, tangibile, in fin dei conti, cos’e? Davvero esiste? E chi può dirlo?
Sembrava bellezza si staglia così tra le pagine come un lisergico incalzare di distorsioni, uno stratificarsi di donne bifronti, allo stesso tempo madri e bambine, sante e puttane, bellissime e sgraziate, in cui riaffiorano antiche perversioni e traumi di freudiana memoria, dove l’incubo spietato si impasta col reale che è schiaffo bruciante, cannibalesco morso a una pietà residua che non redime nessuno.
Teresa Ciabatti fa della sua gioventù una storia di scomparsi, una scatola di fantasmi e illusioni ottiche in cui vagare e divagare tra odiose bassezze, sentimenti non reciproci e proiezioni distopiche del sé che sconfinano nel vizio più osceno e inconfessabile.
Un romanzo che è uno scivolare ingannevole nelle trappole di un tempo concluso eppure sempre in agguato, dove il trauma diventa motore di una scrittura fumante, scomposta, vendicativa, una persecuzione linguistica che non conosce perdono.
Ché “dalla pacificazione col vissuto nulla si crea, ed è proprio questo non far parte della giovinezza di nessuno che mi ha resa scrittrice”, ha confessato lei stessa, parole e bisturi alla mano, persa nella smania del chirurgico tranciare e ricucire, perfettamente a suo agio tra sconcerie, pensieri urticanti e crepe in cui nessuno oserebbe scrutare.
Sembrava bellezza e invece “(…) non siamo altro che mucchi di ossa, ragazze”.
Francesca Eboli
Vedi anche: L’universo in una stanza: il fenomeno Hikikomori in Youtopia