Fuck me di Marina Otero
SI AVVISA IL PUBBLICO CHE LO SPETTACOLO CONTIENE NUDI INTEGRALI
Al Politeama, per la sezione internazionale del Campania Teatro Festival, Marina Otero dà voce all’anatomia umana nel suo Fuck me, prima nazionale.
«Fuck me è la terza parte della prima trilogia del progetto Remember to live, un lavoro costante nel quale io sono il mio stesso oggetto di ricerca e che riguarda lo scorrere del tempo.
Più che altro mi piace che si parli di… e se non ne parlo io, chi ne parlerà?
Chi darà forma alla mia causa narcisistica senza vedere un centesimo? Quale corpo si impegnerà a raccontare la mia vita fino alla morte? Solo il mio.»
Fuck me non è solo un’opera autobiografica, Fuck me è un’opera narcisistica, egocentrica, vanesia, un’opera di pura autocommiserazione e autocompiacimento. Marina Otero, performer e artista argentina, al terzo capitolo della sua trilogia, si regala un inno, un’ode a se stessa, alla sua arte, al suo copro.
L’intento di Fuck me è celebrare, eternare, immortalare, rendere imperitura la bellezza tutta meccanica e materiale che il corpo umano sa esprimere. Al di là della morale, dei valori, delle idee l’unica cosa che conta, l’unica cosa che realmente è tangibile è il corpo. Il corpo è l’unica cosa che importa eppure l’unica cosa inevitabilmente soggetta al tempo.
È un corpo corruttibile quello celebrato da Marina Otero: un corpo che può essere plasmato, può essere utilizzato come strumento di piacere, come oggetto o soggetto d’amore, ma anche un corpo che può tradire, che può perdere la sua forza, la sua giovinezza, la sua bellezza. E quando il corpo diventa deforme, quando sfugge al controllo, il mondo di Marina Otero sembra crollare in un baratro di dolore, di arida e sterile sofferenza, di disagio che paralizza.
«Tutto il mio lavoro consiste in una sorta di ritorno all’infanzia – racconta Marina Otero –, nell’incontrare la bambina che ero, che taceva perché non sapeva come essere, come sentirsi a proprio agio.»
La memoria è una lente che ritocca, che, nel tramandarlo, distorce il ricordo: l’opera autobiografica, dunque, non è mai fedele, mai del tutto sincera, mai pienamente aderente. Fuck me è dunque la rilettura di una biografia, tra ricordi, nostalgie e mancanze: la mancanza e quindi il bisogno dell’amore, sentimento necessario che, in una visione cinica e materialista, è strettamente legato alla bellezza puramente anatomica.
«Cerco di andare contro il comfort, sia il mio che quello dello spettatore, per esporre le zone oscure – dire o fare qualcosa che metta a disagio.»
In un’epoca di lotte in nome della body positivity Marina Otero propone una spietata strumentalizzazione e spersonalizzazione del corpo maschile. Cinque uomini (AUGUSTO CHIAPPE, CRISTIAN VEGA, FRED RAPOSO, JUAN FRANCISCO LOPEZ BUBICA, MATÍAS REBOSSIO), o meglio cinque corpi si muovono sul palco, esprimendo una nudità totale e spesso gratuita. Il corpo maschile è offerto al pubblico senza pudore e senza un reale godimento artistico.
Eppure Marina Otero sembra compiacersi nell’utilizzare quei corpi come suoi oggetti, come protesi del suo stesso corpo ormai infermo. L’artista, tramite questi cinque corpi senza un nome proprio e senza una reale storia, si muove, esprime se stessa, racconta la sua storia, riavvolge il tempo, manifesta il suo dolore.
Lo spettacolo, nonostante l’enorme potenziale concettuale e immaginifico, risulta però privo di grandi concetti e povero d immagini. Se il corpo deve essere il protagonista di Fuck me, Marina Otero non ne coglie tutte le potenzialità, non ne esprime appieno la forza, l’energia, la bellezza. Se il dolore è la traccia da seguire, Marina Otero non ne mostra tutta la potenza, tutta la lacerante devastazione che le sofferenze possono lasciare.
Al termine di un’ora di spettacolo, ciò che resta è la visione del dolore che non diventa, però, una riflessione sul dolore.
Valentina Siano
Vedi anche: Les folies napolitaines: il cabaret al Campania teatro festival