La bellezza dell’effimero: la street art non va al museo
Sin dalla sua controversa apparizione nella New York underground degli anni ‘60, l’energia sovversiva della street art ha segnato un punto di svolta irripetibile nella storia contemporanea delle arti visive.
Ma può ancora definirsi ‘street’ un pezzo d’arte strappato al suo habitat urbano e costretto tra le pareti bianche di un museo?
Avete presente quella volta in cui Maurizio Cattelan, nel 1998, ebbe l’intuizione di trapiantare un albero di olivo in una sala espositiva del casinò del Lussemburgo, intrappolato in un enorme cubo di terra densa, bruna, con radici a vista?
Si tratta di una delle sue solite installazioni, immagini potentissime, contraddittorie, nate per provocare e sollecitare riflessioni, come questa qui: così come quella quercia sradicata dal suo umido suolo ed estranea a quel cielo di cemento, può un’opera di street art pulsare ancora di vita e senso nel cubo bianco di una galleria privata? Ragioniamoci insieme…
Tra graffiti, stencils e immensi murales, capaci di rivitalizzare con il loro tocco variopinto anche gli scenari urbani più degradati, la street art ha fatto il suo glorioso giro del mondo guadagnando visibilità nel circuito artistico internazionale ed imponendosi come linguaggio metropolitano tutto da scoprire. E il fatto che questa creatività illecita sia oggi percepita come parte integrante dello spazio pubblico ha fatto sì che catalizzasse persino l’attenzione istituzionale, al punto da essere incorporata tra le forme d’arte degne di preservazione e ricognizione sistematica.
Ma la scelta di privati di mettere in bella mostra opere concepite come libere, effimere, nate per una pubblica fruizione, ha rivelato forti contraddizioni e avviato accesi dibattiti tra critici e appassionati del settore.
C’è da dire che la sublime arte di custodire pezzi mainstream in musei e gallerie disperse tra i quattro angoli del globo è innegabilmente incompatibile con la natura stessa dell’espressività di strada, geneticamente esposta a decadenza e vandalismo. Sono in tanti, infatti, a ritenere che l’applicazione di pratiche istituzionali (come riparazioni e restauro) sia del tutto in antitesi con la fruizione hic et nunc di artefatti illegali – spesso anonimi – concepiti per essere usurati dal tempo, piuttosto che preservati artificialmente nello spazio asettico di una scatola.
Ma entriamo nel cuore della cocente diatriba: gli esiti della ‘musealizzazione’ di un atto creativo libero da restrizioni politiche e sociali, possono essere analizzati più in profondità attraverso l’esposizione Art in the Streets tenutasi nel 2011 al MOCA (Museum of Contemporary Art of Los Angeles), interpretata da alcuni studiosi come caso emblematico di snaturamento dell’arte di strada all’interno di un museo.
Non a caso, il tentativo curatoriale di Jeffrey Deitch e Aaron Rose di ricostruire una retrospettiva del movimento, analizzando la produzione dei nomi più autorevoli che ne hanno tracciato la storica evoluzione (McGee, Basquiat, Os Gêmeos, Banksy, per citarne alcuni), ha implicato la privatizzazione di pezzi d’arte site-specific, un processo che ha alterato inevitabilmente l’esperienza del visitatore nel rimuovere l’essenziale dialogo pubblico con l’opera.
Infatti, oltre all’innegabile svantaggio di restringere il libero accesso alle installazioni urbane – dovuto ai limitati orari d’apertura del museo e al costo del biglietto, magari per molti non sostenibile – un’altra pecca da non sottovalutare è quella dell’autenticità: la bellezza mutevole, incostante, tipica delle creazioni di strada, è stata drammaticamente compromessa nello spazio protetto della Geffen Contemporary, dove gli artefatti hanno acquisito un’innaturale parvenza di immortalità. La supervisione di guardie – ingaggiate per monitorare costantemente il flusso di visitatori – così come il servizio di riparazione e manutenzione fornito dal museo in caso di danni, hanno innescato quella forma di controllo ossessivo e inflessibile che gli street artist volentieri rifiutano, proprio per mantenere intatta quella evanescenza romantica, unica, che è prerogativa sui generis della loro arte.
Tuttavia, mentre l’indagine etica sulla preservazione della street art è ancora al centro di un vivace dialogo, diverse strategie di riconoscimento, tecniche di restauro e azioni di inclusione museale sono state incoraggiate nel 2003 dall’UNESCO, in occasione del Convegno per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale.
Per garantire la sopravvivenza a lungo termine della street art sono stati infatti proposti trattamenti preventivi dei muri cittadini, oltre a sistemi di monitoraggio della velocità di erosione del colore e modelli tridimensionali in grado di controllare le variazioni temporali di intere aree urbane che ospitano pezzi di creatività.
E bisogna ammettere che la documentazione digitale può rappresentare una valida soluzione al fine di preservare ed esporre virtualmente quest’arte alternativa, potendo così assicurare anche quel libero accesso che le esposizioni private restringono notevolmente; ma è giusto, secondo voi, paragonare la riproduzione virtuale di un artefatto – per quanto definite possano essere le immagini riproposte attraverso uno schermo – con la sua fruizione diretta, immediata, in situ?
Io credo che la deriva genetica della street art sia sintomo di ricettività, un registratore veritiero di quei cambiamenti plasmati dal potere invecchiante del tempo e intagliati nelle mura colorate di una comunità vibrante. Ed è per questo che un’arte così intimamente connessa alla corruzione naturale del suo luogo di appartenenza dovrebbe essere preservata nel rispetto della sua identità effimera.
Perché la sua autenticità evanescente non venga contraffatta e perché la sua aspettativa di vita resti così: breve, energetica, irripetibile, lontana da captions esplicative e teche troppo strette.
Francesca Eboli
Vedi anche: Conservare un amore al Museo delle Relazioni Interrotte: istruzioni per l’uso