La Germania di Anselm Kiefer: vedere ciò che non si vuole guardare
“La storia non esiste. Ognuno ne scrive la propria versione. Per me è come la creta, qualcosa con cui si può costruire.”
Questo il riassunto delle parole di Anselm Kiefer in un’intervista rilasciata per il Museum of Modern Art di San Francisco.
Pittore, scultore, in un certo senso anche filosofo, è considerato uno degli artisti più influenti dei nostri tempi.
Kiefer nasce nel 1945 a Donaueschingen, nella logorata Germania del dopoguerra. Al tempo l’ombra nera del Nazismo rappresentava un enorme fardello per la nazione, qualcosa che sembrava aver segnato per sempre anche le future generazioni di tedeschi.
Ricordare l’olocausto e le grida esultanti di una patria devota e totalmente inconsapevole (oppure no?) di quello che stava realmente accadendo, anche solo il sussurrare a labbra strette il nome del führer, marchiava chiunque ne parlasse come nazionalista.
C’era volontà di occultare, nascondere sotto al tappeto, come un bambino che rompe un cimelio di famiglia e non vuole darlo a vedere ai genitori.
Forse sarebbe stato l’unico modo che avrebbe concesso a quello stato tanto svuotato della sua stessa identità nazionale di poter ottenere la propria redenzione.
Disgusto e vergogna, questo è il contesto in cui Kiefer cresce e sviluppa il suo pensiero, comincia a guardarsi intorno e a credere che forse, grazie all’arte, qualcosa può essere rivisto e, perché no, sicuramente non cambiato, ma rivalutato.
Ed ecco che la sua mente partorisce un progetto azzardato, singolare, che ad una prima occhiata farebbe storcere naso e bocca a chiunque.
Besetzungen, le sue foto, le sue “Occupazioni”, lo immortalano in piedi, in luoghi sacrali della Germania Est ed Ovest, con il braccio destro teso, intento nel celebre saluto romano, ripreso come uno dei gesti cardine dei totalitarismi fascista e nazista.
Genialità? Cattivo gusto?
C’è chi lo accusa di filo-nazismo, chi lo ritiene un avanguardista del suo tempo, qualcuno capace di poggiare un occhio critico su un passato che la stessa nazione tende a voler dimenticare.
Additato dai più, lo stesso artista si vede costretto a cercare di esporre il suo punto di vista altrove. E trova il successo a livello mondiale.
Le sue opere, come Man under a Pyramid o Girasoli (in copertina), prediligono l’uso di materiali misti, la presenza di poche figure umane che si perdono fra pennellate, sovrapposizioni e palette monocromatiche, creando un susseguirsi di emozioni che si esprimono in maniera prorompente su supporti dalle grandi dimensioni, quasi permettendo all’osservatore di trovarsi inghiottito in quella marea di sensazioni visive e tattili.
Se si potesse utilizzare una parola per descrivere la sua arte, quella sarebbe sicuramente “spessa”: stratificata nella tecnica, pesante per il messaggio che porta.
Messaggio che, come detto pocanzi, in molti casi viene travisato e visto sotto aspetti sociali che, con l’arte, forse c’entrano ben poco.
“Non dovremmo mai toccare un artista o un poeta nelle categorie morali”, ribadisce Kiefer.
Queste nobili arti dovrebbero trascendere da quei dogmi che caratterizzano le singole società, “hanno solo il compito di descriverle nel modo più preciso possibile. È diverso.”
Ed eccolo, l’artista, che con determinazione ci mette la faccia e ricorda all’intero popolo tedesco, ma anche al resto del mondo, che la storia ormai si è compiuta, quel momento è passato, adesso bisogna prendere ciò che ne rimane per costruire qualcosa di più, qualcosa di bello.
Qualcosa di buono.
Ilaria Aversa
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