Mrs Dalloway, l’arte di creare momenti felici
In una fresca mattina londinese, nei pressi di Westminster, tra i rintocchi del Big Ben, comincia la lunga giornata di Mrs Dalloway.
Perché bisognava pur andare a comprare dei fiori per la festa che avrebbe dato quella sera stessa, tutto avrebbe dovuto essere perfetto.
Così pensava Clarissa Dalloway, moglie del Primo Ministro Richard Dalloway, passeggiando per le vie più chic di Londra, intanto il suo pensiero vagava, vagava lontano, fino al suo amato Peter Walsh (suo caro amico, nonché amore di gioventù, l’unico che la conoscesse davvero, che sapesse leggere la sua anima, mettendola a nudo), ormai lontano chissà dove in India.
È attraverso un lirico, introspettivo e vorticante flusso di coscienza e pensieri che Virginia Woolf, autrice del celebre romanzo, pubblicato nel 1925, ci trasporta nei recessi più intimi della personalità della protagonista e del suo cuore di donna: una donna misteriosa, apparentemente fredda e distaccata, ma desiderosa di vita ed amore.
La narrazione è costruita dalla scrittrice in modo che il più piccolo dettaglio, come la vetrina di un negozio, un incrocio o un passante, ne richiami un altro, che riporta alla mente della protagonista un luogo o un evento che scatenano a loro volta una serie di considerazioni e riflessioni sulla vita e sul tempo che passa.
Questo intrecciarsi di elementi e lo stratificarsi di livelli narrativi, lungi dal costituire un ostacolo alla lettura, la rendono invece estremamente reale e tangibile, tanto che ci sembra di camminare accanto a Clarissa Dalloway, ascoltando e seguendo in prima persona i suoi pensieri.
Il flusso di coscienza della signora Dalloway scorre sulle pagine in modo assolutamente spontaneo, i suoi pensieri sugli oggetti, i luoghi e i personaggi dell’alta società londinese, di cui lei stessa fa parte, seguono un loro ritmo e hanno un loro filo rosso: restituirci la complessità dell’animo umano in un gioco di luci e ombre, di trasparenze e opacità che rende i personaggi del romanzo estremamente realistici.
Tutto il romanzo, che si svolge nel tempo narrativo di una giornata, dalla mattina alla sera, si gioca su una dicotomia, è un continuo oscillare tra la vita e la morte; i rintocchi del Big Ben sono in quest’ottica un motivo centrale, simbolo del fluire incessante e inarrestabile delle cose.
Nella Londra post-Prima guerra mondiale, la Woolf ci narra la giornata della signora Dalloway e i suoi preparativi per la festa. La giornata di Clarissa, che porta con sé una serie di riflessioni sulla sua vita, il suo passato e sulla felicità (che costituiscono la bellezza del romanzo) si intreccia con quella di un reduce di guerra, Septimus Warren Smith.
Le strade di Londra sono il teatro in cui le vite e i pensieri di Clarissa e Septimus si incontrano, attraverso una serie di “epifanie”, momenti estatici in cui vita e morte sembrano fondersi e trovare infine un senso.
Septimus è sposato con un’allegra e loquace donna italiana, Lucrezia Warren Smith. La donna è sempre più avvilita e disperata perché il marito, tornato dalla guerra, dove ha visto morire davanti a sé, il suo migliore amico, è sprofondato in un silenzio e in un vortice di apatia ed incomunicabilità che ha creato un divario incolmabile tra i due.
L’uomo non risponde alle domande della moglie, non prova più piacere nel fare nulla e sembra aver perso ogni interesse per la vita; tanto che la moglie e il dottore Sir William Bradshaw, decideranno di ricoverarlo in una casa di cura. Il giovane si sente quindi completamente incompreso e senza via di fuga, finendo per togliersi la vita.
Alla notizia del suicidio di Septimus, fa da contraltare il sontuoso ricevimento organizzato da Clarissa, durante il quale si apprenderà del tragico evento che sconvolge e tocca nel profondo la Signora Dalloway, pur non conoscendo personalmente il giovane.
L’apice del romanzo, nonché sua conclusione, è rappresentato dall’intuizione, da un’epifania vera e propria che collega i destini di Septimus e Clarissa.
In prima battuta la donna è sopraffatta dall’angoscia e dalla tragicità della morte. Ma dopo alcuni istanti, Clarissa si sente quasi sollevata, addirittura felice; naturalmente non per la morte in sé del giovane uomo, piuttosto prende consapevolezza, in un attimo estatico, della caducità e della finitudine della vita.
Nel bel mezzo del caos della festa, Mrs Dalloway comprende che la morte può essere superata, sconfitta, solo celebrando ogni giorno, in ogni istante, la vita, in tutte le sue sfaccettature. Così la morte, in questa prospettiva, si trasforma in un’esaltazione della vita e in un invito a godere a pieno di ogni momento, senza timori; le parole del Cymbeline shakspeariano più volte ricordate nel romanzo e care alla Dalloway, sono in tal senso emblematiche:
“Fear no more the heat o’ the sun
Nor the furious winter’s rages”
Dare delle feste e vivere attorniata da persone non è solo un modo per eludere la solitudine e il silenzio, al contrario, è una celebrazione dell’esistenza, ma soprattutto rappresenta ciò che Clarissa ama fare, ossia, creare dei momenti felici. “Cosa significa per me, questa cosa chiamata vita? Oh, è una cosa molto strana. Qui abbiamo Tizio o Tizia, a South Kensington; là, in Bayswater, abbiamo Caio o Caia…e pensa: che peccato! Se solo si potesse metterle assieme, queste persone! Allora lei si adopera in tal senso. Per combinare; per creare”.
Nell’ottica di Clarissa Dalloway allora, le sue feste rappresentano “un’offerta per l’offerta, forse, per il piacere di offrire”. Poiché la vita è proprio questo, come sembra ricordarci Virginia Woolf, creare momenti magici, estatici, occasioni, stringere affetti e legami che possano spezzare e trascendere le catene del finito ed essere emblema di quel qualcosa in più che ognuno di noi ricerca.
Benedetta De Stasio
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