Cancel culture, questo articolo verrà rimoss-
Il politically correct sta andando verso una deriva estrema alquanto discutibile e risibile, lesiva per la libertà d’espressione.
Per carità, va bene opporsi a castronerie e discriminazioni, ma qual è il limite tra giusto e sbagliato? Non staremo un po’ esagerando?
Nell’attuale esasperazione del politicamente corretto rientra la Cancel culture (cultura della cancellazione). Questa espressione si riferisce alla pratica – da parte dell’opinione pubblica – di ostracizzare persone, frasi, eventi e organizzazioni ritenuti in qualche modo dannosi alla morale progressista maggioritaria.
Inizialmente il termine “cancelled” veniva utilizzato nel mondo anglosassone per esprimere la propria contrarietà ad un determinato gesto (perlopiù commesso da un personaggio in vista) ritenuto disdicevole per un motivo o per un altro. Attraverso il passaparola digitale, alcune questioni sono però arrivate sotto gli occhi di tutti, implicando una presa di posizione netta anche da parte di chi magari quelle azioni (che fossero o meno degne di censura) le aveva commesse.
Il caso è talmente controverso che potrebbe diventare una delle sfide del millennio: è giusto che i social assumano un potere decisionale così forte da modificare persino gli avvenimenti della realtà e la loro percezione?
Dopo l’agghiacciante e ingiustificato omicidio di George Floyd, il movimento di protesta Black Lives Matter ha ottenuto una serie di importanti riconoscimenti e gettato nuove luci sulle ombre segregazioniste e razziste purtroppo ancora radicate negli States.
Si ripropongono occasioni di sdegno e disputa: pensiamo, ad esempio, alle accuse mosse nei confronti della blackface, cioè una particolare tipologia di make up teatrale, per cui attori e attrici vengono truccate per assumere – con una certa dose di parodizzazione – i tratti accentuati di una persona di colore. La messinscena, di per sé, dimostra evidenti spinte razziali. Strausbaugh, un giornalista contemporaneo ai primi utilizzi della blackface, addirittura affermava che essa fosse un modo per «esibire la negritudine per il divertimento degli spettatori bianchi». Frasi del genere oggi scatenerebbero – giustamente – l’ira incontrastata di chiunque sia davvero consapevole dei più basilari diritti umani.
Accecati dalla smania di puntare il dito, spesso ci si dimentica che ogni cosa va contestualizzata. Nella sitcom televisiva Scrubs alcuni episodi, rei di mostrare l’applicazione della blackface, sono stati censurati e la loro visione è stata negata su tutte le principali piattaforme di streaming online. Eppure, oltre al fatto che Scrubs è una di quelle serie “leggere” capaci di sensibilizzare su argomenti come le differenze etniche e di genere, va considerato che in quelle stesse puntate la blackface viene ironicamente messa in atto come un’umoristica forma di emulazione nei confronti del personaggio afroamericano Cristopher Turk, visto come un modello positivo da imitare.
Esistono poi casi ben più gravi di “censura sociale”. Molto discusso è stato quello riguardante la mancata stampa di una biografia sulla vita di Philip Roth. Cosa è successo? Per chi se lo fosse perso, nell’aprile del mese scorso l’autore dell’opera, Blake Bailey, ha ricevuto accuse di violenza sessuale. Nonostante sia ancora tutto da valutare, visto il danno d’immagine, la casa editrice W. W. Norton ha deciso di interrompere la stampa del libro. La società americana in primis si è spaccata sull’argomento: parte dell’opinione pubblica ha appoggiato la durezza della presa di posizione; mentre la critica e la componente garantista della popolazione ha definito la scelta avventata. Entrambe le fazioni presentano punti a loro vantaggio, ma ciò che più colpisce resta sempre la velocità con cui le opinioni possono influenzare i grandi mercati e la produzione mondiale.
L’impiego di queste pratiche suona ancora più problematico se riferito a elementi molto distanti dal nostro presente e dal nostro modo di pensare. Il movimento “silenziatore” negli USA è arrivato a scagliarsi su alcuni grandi classici della letteratura. Si tratta al momento di azioni isolate e espletate sull’onda lunga del movimento #DisruptTexts, ma comunque sia l’evento dà da pensare. In una scuola del Massachussets, una professoressa aveva radiato dal programma di studi il poema per eccellenza – l’Odissea – perché giudicato razzista e sessista. La repressione ha travolto altri masterpieces del nostro passato: da Shakespeare a Pasolini, da Pound a Montanelli (di cui ricordiamo l’iconica vicenda della statua imbrattata a Milano).
Nemmeno il cinema è stato risparmiato. Un altro profilo affossato dal biasimo pubblico è quello del regista newyorkese Woody Allen. Dopo la denuncia di molestie a lui recapitata dalla figlia adottiva Dylan Farrow – accuse ancora non accertate – il pluripremiato direttore artistico ha visto stroncata la sua carriera negli USA. Ecco perché la sua ultima impresa cinematografica, Rifkin’s Festival, non è stata né realizzata né distribuita, almeno per il momento, negli States. Intanto continuano a fioccare gli annunci di vari attori pronti a prendere le distanze da Allen (esemplari in questo senso le interviste di Timothèe Chalamet o Colin Firth).
Il modo del pubblico di accogliere e intervenire sulla realtà circostante attraverso i social media dovrebbe divenire materiale essenziale del dibattito pubblico e giornalistico. Quando qualcosa o qualcuno è davvero degno di essere messo a tacere? Potrebbe essere utile dare vita ad una normativa internazionale ad hoc? Esiste un modo per valutare oggettivamente situazioni di questo genere? Queste rientrano, con ottima probabilità, tra le domande irrisolte che ci accompagneranno nei prossimi anni.
Piccolo consiglio di lettura al riguardo: sul numero di Internazionale, 14-20 maggio, Zerocalcare ha pubblicato un fumetto che parla proprio di Cancel culture!
Giusy D’Elia
Illustrazione di Vincenza Topo
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