Come è cambiato il Natale nel tempo?
Natale di qua, Natale di là.
Siamo arrivati al punto in cui ancor prima di riporre nell’armadio le maschere di Halloweeen, già si comincia a respirare l’atmosfera natalizia.
Ma come è cambiato nel tempo il Natale?
Il culto del 25 dicembre esiste da tempi immemori. Celebrato nelle culture pagane dei Celti (Yula) e dei Romani (Saturnali), è stato in seguito associato alla religione cristiana. Per la precisione, è entrato ufficialmente nel calendario cristiano nel 354 d.C. per volere dell’Imperatore Costantino.
Ha attraversato popoli diversi, in un continuo interscambio culturale che ne ha modificato e consolidato di volta in volta le tradizioni, arrivando al nuovo millennio nella forma che oggi si presenta standardizzata in una buona fetta di mondo.
Se però il Natale, come festa in sé, vanta una storia antica, lo stesso non si può dire riguardo alle modalità di festeggiamento.
Sembra che fino alla prima metà del XIX secolo, i festeggiamenti fossero limitati agli incontri pubblici. Solo in un secondo tempo, il Natale si trasformò in un’occasione di ritrovo e di comunione.
Andando a ritroso di un centinaio di anni, scopriamo che i nostri nonni e bisnonni trascorrevano un Natale tutto sommato simile al nostro, ma con qualche lieve differenza derivante dal particolare contesto storico e sociale.
Prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, la maggior parte della popolazione italiana viveva in condizioni di miseria e, dunque, la festività si riduceva a pochi e semplici gesti rituali, ben lontani dallo sfarzo iperbolico al quale si assiste oggigiorno.
Non vigeva l’usanza di addobbare le strade e le vetrine. Anche nelle case le decorazioni erano contenute. All’albero, si preferiva un presepe simbolico allestito con i rudimentali mezzi a disposizione.
La ricorrenza aveva un valore prettamente religioso. Il momento più importante era la messa della mezzanotte, alla quale quasi l’intera comunità partecipava con fervore, nell’attesa della nascita del Bambin Gesù, l’unico e solo protagonista.
L’indomani si preparava un banchetto, sicuramente più ricco e gustoso rispetto all’ordinario, ma comunque sia costituito da piatti frugali e caserecci. Chi possedeva terreni e allevamenti sfoggiava i propri prodotti: latticini e derivati, pasta, pane e dolci fatti in casa con una manciata di ingredienti. E non ci si poteva neanche abbuffare! Si faceva economia risparmiando le eccedenze per i giorni seguenti.
Dopodiché, si andava di casa in casa a scambiarsi gli auguri con i parenti, face to face e non come nell’era digitale “chat to chat”. Zii, cugini, pronipoti (e via proseguendo nell’albero genealogico) si riunivano attorno al focolare, chiacchierando e pregando insieme.
Il tempo di completare il giro di visite e il giorno di festa era volto al termine. Tutti a nanna, mica a ballare o a bere in un locale come si usa adesso!
E lo scambio di regali? Ho lasciato volutamente all’ultimo uno degli atti portanti del rituale natalizio, perché al tempo era quasi un di più.
La leggenda di Babbo Natale non era ancora così diffusa; a fare le sue veci intervenivano la Befana o il Bambinello in persona. Le ristrettezze economiche non permettevano l’acquisto di grandi doni e perciò il massimo a cui si poteva aspirare era: frutta secca, mandarini, biglie, bambole di pezza.
D’altronde, i bambini di allora non avevano grandi pretese, per cui anche il solo fatto di ricevere qualcosa, per quanto modesto fosse, bastava a riempirli di gioia.
Fu a partire dal secondo dopoguerra, con l’avvento della società del benessere, che le cose cambiarono e si inaugurarono i costumi odierni.
Città, negozi e case si riempirono di luci colorate e oggetti decorativi. Ovunque risuonavano le melodie dei canti natalizi. La tavola si imbandiva con elaborate pietanze in esubero. Grandi e piccini trovavano sotto l’albero presenti all’ultimo grido. I mezzi di comunicazione nascenti contribuivano a creare un’atmosfera festosa, trasmettendo film e programmi a tema natalizio. Dopo il pranzone – la cui durata si estendeva in maniera direttamente proporzionale al numero crescente delle portate – le famiglie si sfidavano nei giochi di società.
La genuina spiritualità religiosa lasciava il posto al consumismo, rendendo il 25 dicembre una festività commerciale e culturale.
Poi sono arrivati gli anni Duemila e con essi: la corsa ai negozi e all’e-commerce; la gara a chi ha gli addobbi più vistosi; la ricerca dell’outfit più cool; i pasti lauti che iniziano il 24 dicembre e finiscono senza interruzione il 6 gennaio; i selfie di gruppo; gli eventi-aperitivo, i regali high-tech.
Insomma, sono subentrate nuove abitudini le quali, agli occhi dei nostri predecessori, apparirebbero come sperperi di una superficialità sconcertante. Ma al corso della storia non vi si oppone, lo si asseconda e lo si cerca di comprendere.
È vero che per certi aspetti si è passati da un eccesso all’altro, tant’è che molti (me compresa) sono diventati insofferenti a questa festa; però è anche vero che lo spirito del Natale non è morto affatto.
Non può morire.
Si tratta pur sempre di una tradizione profondamente radicata nel nostro bagaglio storico e culturale.
È un pretesto per staccare la spina e godersi gli affetti e la meditazione.
È un momento magico per i più piccoli, dolcemente nostalgico per il bambino nascosto in ciascun adulto.
Gli usi e i costumi evolvono, ma il senso del Natale rimane immutato. Ne abbiamo avuto riprova l’anno scorso, quando il Covid ci ha costretti a rinunciarvi.
In quella spiacevole occasione, la mancanza del clima festivo fu tale da farci rimpiangere persino le domande inopportune dei parenti che arrivano puntuali mentre stai per addentare il pandoro.
Cosa ci è mancato? Né le pacchianate esornative (non scarseggiano mai), né il mancato scambio di doni (ci hanno pensano i corrieri), né le abbuffate (la tristezza e la noia aprono lo stomaco), bensì la possibilità di aggregarsi, di fare “comunione” (cristianamente parlando e non).
Il calore umano non si sostituisce nemmeno con la migliore della tecnologie. Non è sufficiente una videochiamata o un messaggino whatsapp per ricostruire la dinamica dello stare insieme occhi negli occhi davanti ad un bicchiere di spumante.
Penso in particolare alle famiglie e agli amici separati dai chilometri e dagli impegni, i quali hanno disposizione solo quei pochi giorni per ritrovarsi.
Il sentimento della condivisione (e non parlo dei post sui social, NdR) incarna il senso ultimo del Natale, quello che mette d’accordo religiosi e laici.
Senza scadere nella banalità del «si stava meglio quando si stava peggio», possiamo affermare che la società dei consumi non ha snaturato (o almeno non del tutto) il Natale, il quale è e rimane la festività più attesa di ogni anno.
Giusy D’Elia
Vedi anche: La magia delle letterine di Natale