Dress code o misoginia? Cosa si nasconde dietro la decenza
Di recente si è tornato a parlare di dress code e di rispetto del decoro nelle scuole quando tre studenti di un liceo milanese sono entrati nell’istituto indossando una gonna per la Giornata Internazionale contro la violenza di genere.
Un bellissimo gesto di solidarietà che si è trasformato nell’ennesima manifestazione di bacchettoneria quando il professore di filosofia dei ragazzi si è rifiutato di fare lezione.
Le ragioni addotte dal docente sono le classiche invocazioni alla decenza e al decoro che potrebbero anche essere comprensibili se non fosse per l’accusa di essersi vestiti da clown.
È la gonna un indumento tipico dei buffoni e non ce ne siamo mai accorti? Siamo anche noi donne allora delle buffone?
La questione ha ravvivato il dibattito sul dress code che non si estingue mai del tutto, e a giusta ragione. I tempi cambiano, così come le mode e gli usi, ed è giusto aggiornare il catalogo di regole su ciò che è lecito e non lecito fare. La scuola, l’ufficio e i luoghi di culto necessitano sicuramente di un vestiario appropriato, ma chi decide cosa è appropriato? Le stesse persone che stabilirono le regole cento anni fa quando la diversità era vista come una brutta cosa e le donne come oggetto sessuale da controllare?
Certo, presentarsi al lavoro o a scuola in shorts non sarebbe affatto decoroso – nonostante si possa argomentare che l’abito non fa il monaco e una persona vestita in maniera sensuale o eccentrica sarebbe comunque in grado di svolgere il proprio lavoro – ma cosa c’è di indecoroso in una gonna?
La vera questione nascosta tra le parole del professore – e dei vari bigotti che si appellano alla decenza – è che una gonna è indecorosa se indossata da maschi. Perché? Perché è un capo prettamente femminile (cosa tra l’altro non vera, visto che fino a qualche secolo fa non era insolito per gli uomini indossare abiti e calzamaglie). E davvero nel XXI secolo ancora pensiamo che una gonna renda un uomo effemminato? Gli scozzesi non potrebbero che dissentire!
Scherzi a parte, in una tale affermazione si nascondono problematiche misogine e omofobe: innanzitutto, dare una connotazione negativa a un qualcosa che richiama il concetto di femminilità implica che tutto quel che è femminile sia disgustoso e sbagliato; inoltre, dire che chi è nato uomo non sia decoroso con indosso abiti femminili nega il riconoscimento di molte categorie che nel vestiario da donna si sentono maggiormente a proprio agio.
Negare agli uomini, alle donne trans che non hanno ancora iniziato la transizione e alle persone non-binary il diritto di vestirsi come vogliono è semplicemente crudele, una vera e propria violenza di genere, come la Giornata Internazionale in questione cerca di sottolineare, e lo stesso vale con l’impedire alle donne di vestirsi da uomo.
Ma il punto è proprio questo, no? Il concetto del “vestirsi da uomo” non è mai così disprezzato come il suo opposto perché aspirare alla virilità è meno vergognoso e più sensato agli occhi della società.
Non è forse vero che noi donne indossiamo i pantaloni, cosa che soli cent’anni fa sarebbe stata assolutamente deprecabile? Ci tagliamo i capelli, calziamo scarpe basse, alle riunioni capita persino che indossiamo completi con giacche eleganti. Siamo forse disgustose quando emuliamo lo stile degli uomini? O ci definiscono sexy e potenti?
La verità è che la strada verso la parità di genere è ancora lunga e dobbiamo cominciare proprio dalla scuola, insegnando a ragazzi e ragazze – anche se loro forse già lo sanno bene, sono i professori a doversi aggiornare – che qualsiasi abbigliamento può essere dignitoso perché entrambi i generi hanno pari dignità.
Claudia Moschetti
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