Egon Schiele, mille volti e la sottile linea che li divide
Prendiamo uno specchio. Mettiamoci lì davanti. Guardiamoci attentamente, occhi negli occhi col nostro riflesso.
Adesso cominciamo a fare delle smorfie, deformiamo i contorni del nostro volto con le espressioni più estremizzate, fin quando non risulteremo irriconoscibili alla nostra stessa vista, talmente tanto da apparirci estranei.
Possiamo ancora dire di essere noi? L’io che mostriamo agli altri, come affermava Pirandello, è davvero la nostra unica versione esistente, totale e definitiva?
Questa sarebbe potuta essere, a parere di molti, una domanda che Egon Schiele era solito farsi mentre sistemava lo scompigliato ciuffo di capelli allo specchio, la mattina.
O, almeno, io me lo immagino un po’ così.
Egon Leon Adolf Schiele è un personaggio assai curioso per la vibe che vuole dare di sé. Muore giovanissimo, a soli ventotto anni, mostrandosi nella sua vita e nelle sue opere come un dandy dannunziano, un Dorian Gray che ha letto Nietzsche.
Questo poteva farlo apparire come un pavone che amava mettersi in mostra e specchiarsi ad ammirare il suo riflesso, come Narciso al fiume.
Un pallone gonfiato, diremo oggi di qualcuno con un atteggiamento simile.
Sta di fatto che rimane uno dei capostipiti del movimento artistico Espressionista.
Su questo non c’è da discutere.
Il forte di Schiele risiede nella scomposizione della figura umana.
Nei suoi dipinti, infatti, troviamo linee spigolose, movimenti inarmonici e talvolta forzati, che rendono surreale la figura dominante sullo sfondo chiaro.
Ma il focus è sul viso, il primo vero particolare che ci cattura.
Schiele, come sostenevamo pocanzi, si è studiato a lungo allo specchio. Ha approfondito l’espressività facciale, il modo in cui la bocca prende una piega insolita se si è disgustati, la ruga che compare al centro della fronte corrugata.
Ed ogni volta che si sforzava di comprendere fin dove l’anatomia del suo viso potesse arrivare, permetteva a lati del suo io interiore di emergere e farsi prepotentemente largo sulla scena.
Come scomponeva le linee, così frammentava l’anima.
Come sentiva perdere la sua identità, così riusciva a ritrovarsi, meglio di prima.
Ritrarsi non era una pratica solo analitica o puramente esibizionista, sebbene alcune opere lo rappresentassero nudo nell’atto di masturbarsi. O, almeno, non solo.
L’autoritratto era per Schiele un modo di scavarsi dentro e far uscire quei “personaggi in cerca d’autore” che si portava dentro, dargli un nome e la possibilità di emergere.
Nei suoi dipinti, infatti, quasi stentiamo a riconoscerlo. È come se ci trovassimo di fronte a modelli sempre diversi, tanto cambia la percezione che ci viene data dai gesti e dagli sguardi ricreati.
Quelli sul foglio sono lui, ma allo stesso tempo se ne distaccano, pur rimanendone sempre ancorati.
Schiele, possiamo dirlo, era davvero la perfetta sintesi del concetto pirandelliano “Uno, nessuno e centomila”, dove però quei suoi centomila caratteri, che chiunque custodirebbe pur di dare un’immagine accettabile ed unica agli altri, erano messi in bella mostra, ammirati, criticati, quasi come se avessero una propria identità.
Quasi come se fossero vivi.
Ilaria Aversa
Fonte copertina: Dettaglio da Google Arts & Culture
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