Le cinque poesie più belle sull’inverno
È inverno. La notte arriva prima e le strade si illuminano con luci artificiali.
L’aria è fredda e viene voglia di rimanere in casa, al caldo, al sicuro.
L’inverno è come un abbraccio.
L’anno sta finendo e si diventa consapevoli del tempo che passa, e questo porta una certa malinconia, addolcita dalle promesse di un nuovo inizio.
La poesia è forse uno dei modi più immediati e belli per tradurre in parole le sensazioni che l’inverno porta con sé. Ne proponiamo cinque, di poeti e poetesse molto diversi tra loro per stile, lingua, poetica e contenuti, che con i loro versi hanno raccontato il loro inverno.
- E ti bacio la bocca bagnata di crepuscolo di Pablo Neruda è una poesia d’amore dolce e delicata. È facile amarsi in estate, quando va tutto bene e la vita sembra semplice. Ma l’amore vero resiste all’inverno, al freddo e al cupo grigiore delle giornate più fredde.
“No, non voglio baciarti
in una giornata di sole.
Non voglio che sia estate.
Non voglio che sia in mezzo alla folla.
Vorrei baciarti in una di queste sere d’inverno,
quando il sole scolora nel grigio e nel freddo;
quando sarà più facile
trovare, insieme,
l’alba dentro l’imbrunire”.
Le stagioni di cui parla il poeta cileno sono metaforiche. Il finale è una promessa: trovare la luce, insieme, anche tra tante difficoltà.
- In Nevicata, Alda Negri descrive la neve che danza leggiadra nel cielo prima di posarsi “stanca” sui tetti, sugli alberi e sui giardini e “dorme”, mentre il mondo indifferente a lei, “tace”. È una poesia molto triste. Se la neve è metafora della pace, la noncuranza che il mondo le dimostra è l’incapacità degli esseri umani di prestare attenzione alla bellezza, alla delicatezza, alla fragilità.
- Con uno stile poetico totalmente diverso, Raymond Carver in Madre racconta una telefonata fatta tra lui e sua madre per scambiarsi gli auguri di Natale. La telefonata non è assolutamente piacevole come ci si aspetterebbe. In pochi versi, Carver racconta un rapporto conflittuale, una situazione familiare difficile e opprimente. Entrambi sono intrappolati in una città dove non vogliono essere, in una vita che non vogliono vivere. Ricordano insieme “vecchi tempi” che non hanno nulla di bello. Mentre parlano al telefono, la neve cade instancabile e, attaccato alla cornetta, Carver riflette sulla sua incapacità di esprimere quello che sente dentro di sé. Parla a sua madre superficialmente di quello che mangia, senza alcun interesse, mentre è consapevole di non essere in grado di esprimere “dentro cosa sente veramente”.
“Come faccio a parlarne?
Come faccio a spiegare quello che sento?”.
- Non pare invece avere gli stessi problemi di comunicazione Giuseppe Ungaretti quando scrive HIVER. Una poesia composta da soli due versi, molto semplici, ma estremamente significativi.
“Come la semente anche la mia anima ha bisogno
del dissodamento nascosto di questa stagione”
Durante l’inverno l’uomo non può più lavorare la terra e la lascia riposare. Nel frattempo, la natura “di nascosto” prepara il terreno a tornare fertile in primavera. Così, anche l’anima di Ungaretti – e quella di tutti noi – ha bisogno di un tempo di riposo, silenzioso, per rigenerarsi.
- In Svegliarsi in inverno, Sylvia Plath descrive il paesaggio invernale che vede dalla finestra dell’ospedale in cui era ricoverata. È una poesia drammatica, in cui il paesaggio invernale diventa metafora di desolazione e angoscia e, soprattutto, della depressione di cui la poetessa era ammalata.
“Il cielo è di stagno, ne sento il gusto in bocca: stagno vero.
L’alba d’inverno è colore del metallo,
gli alberi rigidi come nervi bruciati.
Ho sognato per tutta la notte
distruzione, annichilimento –
gole tagliate in catene di montaggio,
e io e te che ce ne andavamo lenti
sull’automobile grigia, sorseggiando
il verde veleno dei prati muti,
le lapidi di legno, non un suono,
su pneumatici di gomma
diretti alla stazione balneare.
Che echi dai balconi! E il sole, come
illuminava i teschi, le ossa sfatte
di fronte al panorama. Spazio! Spazio!
Le lenzuola tiravano gli ultimi,
le gambe del letto si scioglievano
in terribili posture, e le infermiere –
ogni infermiera bendava la sua anima
a una ferita, e scompariva.
Gli ospiti mortali non erano rimasti
soddisfatti delle stanze, dei sorrisi,
delle piante di plastica o del mare
che quietava i loro sensi scorticati
come Mamma Morfina”.
Nadia Rosato
Vedi anche: Forme metriche della poesia lirica: La canzone