Moonlight e lo stigma del “frocio”
Moonlight è un film di ben cinque anni fa che ci racconta una storia così realistica e attuale che nulla sembra essere cambiato da oggi; infatti, basti pensare a come il Ddl Zan è stato brutalmente affossato dalla nostra classe dirigente.
Tuttavia, il film non è ambientato in Italia bensì nel quartiere più malfamato di Miami dove Chiron detto “il Piccolo” vive con la madre Paula.
Ben presto il bambino conosce Juan, uno spacciatore della zona il cui buonsenso stride con il classico stereotipo dello spacciatore, il quale diventa da subito un’autorevole figura di riferimento, al contrario della madre che si dimostra sempre più distante da suo figlio, a causa delle sostanze stupefacenti di cui sempre più assiduamente fa uso.
Della regia di Barry Jenkins e vincitore di numerosi premi, il film percorre tutta la vita del ragazzo, raccontando una realtà progressivamente sempre più ostile nei suoi confronti. Da piccolo escluso, bullizzato, da adolescente bersaglio di vessazioni continue da parte dei coetanei. Ma nemmeno il contesto familiare è di supporto al bambino, poiché il padre è assente dal principio della storia e la madre soffre di una grave dipendenza da stupefacenti che logora progressivamente i rapporti madre-figlio. La realtà conosciuta dal bambino e poi dal ragazzo è regolata dalla violenza, da rapporti di potere e dalla prevaricazione tanto che Chiron è costantemente impegnato, a difendersi o meglio a sopravvivere, rimanendo costretto così a limitare il tempo per approfondire le proprie inclinazioni.
Una delle scene che più emblematiche è ambientata a tavola, quando il bambino chiede “Cos’è un frocio?” a Juan e quest’ultimo gli risponde spiegandogli in modo naturale che è un uomo a cui piacciono gli altri uomini. Dopo di che arriva la domanda fatale di Chiron “E io sono un frocio?” che sottolinea come lo stigma possa marcare, categorizzare una persona fin dall’infanzia, che per natura dovrebbe essere l’età più libera dai dogmi e dai preconcetti.
Alla domanda Juan risponde con la tenerezza di un padre “non devi saperlo adesso”, affermazione che evoca il concetto di autodeterminazione che per quanto positivo prevede una complessità che è giusto che una persona affronti all’età che più ritiene adeguata per se stesso/a.
Successivamente il protagonista riuscirà a vivere serenamente la propria vita, ma questo non sarà dettato da un miglioramento delle condizioni esterne ma dalla sicurezza acquisita dal protagonista, che da ragazzino mingherlino e indifeso si trasforma in un giovane palestrato e minaccioso.
Il cambiamento fisico non è svincolato da un rafforzamento caratteriale del protagonista che il regista decide di comunicarci intuitivamente attraverso un corpo invigorito. Come se alla fine il ragazzino in cui nessuno avrebbe scommesso, solo e abbandonato da tutti fosse riuscito a sopravvivere alla jungla in cui era fortuitamente nato e cresciuto. Come potremmo definire la dinamica descritta se non un assoluto scacco alla legge del darwinismo sociale, che dispone che alcuni individui siano per le loro caratteristiche sociali più facilitati nell’adattamento alle condizioni di vita correnti.
Charonm, come si può facilmente dedurre, non è una persona che la società ha facilitato, ma che anzi ha svantaggiato in qualsiasi modo, soprattutto sottraendogli un luogo sicuro, protetto dalle minacce del mondo che provenivano contemporaneamente dal contesto casalingo e da quello scolastico, tanto da indurre il ragazzo a credere che il luogo più sicuro per se stesso fosse la strada.
Questo film dovrebbe essere proiettato nelle scuole, dovrebbe far parte di un percorso di educazione alla sessualità, all’omosessualità e alle diversità in generale. In primis perché ha il potere di farci sentire sulla nostra pelle le vessazioni, le offese, le sofferenze di un ragazzino che è costretto ad autocensurarsi, ad annientarsi per paura delle prese in giro, delle botte, delle litigate, ma soprattutto per il peso di uno stigma che è pronto a sovradeterminarti, a importi la categoria del “frocio” ancor prima che tu stesso l’abbia accettata.
Chiara Celeste Nardoianni
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