Sorrentino racconta il miracolo della mano di Dio su Napoli e nella sua vita
Il film autobiografico del regista narra la storia di una generazione. Sono andata al cinema a vedere È stata la mano di Dio il giorno dell’anniversario della morte di Maradona.
Il cielo napoletano, guarda caso, ha pianto una pioggia fitta per tutto il giorno.
Come in un presagio, ho scelto di evitare i multisala e sono andata all’American Hall, un cinema al Vomero vecchio stile, di quelli dove andavo con mia madre da bambina.
Lo schermo non ha nulla da invidiare a quelli dei maxi-cinema e le poltrone sono comode: quale modo migliore per affondare in un amarcord anni ottanta?
Prima di accedere alla sala, puoi goderti lo spettacolo di una finestra panoramica da cui si vede la città dall’alto, mentre sorseggi qualcosa al bar in attesa che si faccia l’orario di entrare.
Così ho fatto, mentre la pioggia continuava a tartassare Napoli, senza pietà.
Poi sono andata al piano sopraelevato, le luci si sono spente e ho pensato che per un po’ mi sarei dimenticata di me stessa, come accade solitamente nel buio della sala.
Non è stato così.
Il film è ambientato negli anni ottanta, quelli in cui sono nata, di cui ricordo ben poco con consapevolezza, ma che probabilmente hanno contribuito più di tutti a costituire gli aspetti più profondi e influenti della mia identità.
Quegli aspetti che non ti lasciano scelta e comandano al posto tuo.
Ma parliamo del film.
Il protagonista, Fabietto, è un alter ego del regista Paolo Sorrentino.
Lo vediamo immerso tra le personalità complesse di una famiglia abbastanza normale da non sentirsi in diritto di potersene lamentare e abbastanza assurda da avere l’esigenza di farlo.
I genitori di Fabietto si amano in modo romantico, eppure il padre tradisce abitualmente la madre. Gli zii hanno un rapporto altrettanto tormentato e ci sono di mezzo violenza domestica e disturbi psichiatrici, due piaghe diffuse ma di cui non parlava mai nessuno; all’epoca veri e propri tabù sociali.
Nelle occasioni importanti, la famiglia si riunisce in spensieratezza.
Una lievità che nasconde il dramma ancor prima dell’arrivo di una tragedia: i rapporti interpersonali per quanto leggeri sembrano tutti frammentati, i personaggi suonano “disuniti”, termine e concetto che vedremo tornare nel film a ripetizione.
A turbare la quiete di Fabietto però, è soprattutto la scoperta dei primi pruriti sessuali. Il film è intriso di erotismo, sia latente che sfacciato, e il protagonista è affascinato da ogni donna con cui si relaziona.
Sta passando dall’età infantile a quella adulta, attraverso i rovi disastrosi dell’adolescenza degli anni ottanta, quelli di una società che non era attenta a usare le parole giuste per ogni categoria, che non si faceva domande sulla parità di genere.
Un’epoca vicinissima e affascinante, per certi versi lontana anni luce dal presente: il web non era ancora entrato nelle case a informare, illuminare, connettere le persone distanti e separare le famiglie.
Anni non globalizzati, in cui il luogo di nascita è dove si è immersi in maniera totale.
Pur condividendo il medesimo piano temporale, Fabietto somiglia solo vagamente ai ragazzini americani di Stranger Things, perché è napoletano. I suoi dubbi e le sue incertezze rispecchiano quelle della metropoli in cui vive che è quasi il suo unico mondo quotidiano, senza la finestra del web per poter guardare altrove.
Teso tra mille sospensioni, Fabietto è in attesa della conferma di una grande notizia: la squadra di calcio del Napoli deve acquistare l’argentino Diego Armando Maradona.
Un amico più grande di me, in sala, mi sussurra che ha vissuto la cosa allo stesso modo e che tutti in città non parlavano di altro in quei giorni. “Uh, casa di Fabietto sembra casa mia all’epoca!” gli sento sussurrare, non so se a me o tra sé, e sorrido.
Il sogno si avvera e Fabietto comincia ad andare allo stadio abitualmente per vedere il campione giocare.
Durante una partita, una fuga di gas uccide i suoi genitori, mentre lui si salva grazie alla mano santa del pibe de oro, che lo ha trascinato allo stadio. Sopravvive, ma nella desolazione di un’adolescenza allo sbando e quasi perde la gioia di essere al mondo.
Ma Napoli è la città dei miracoli pagani. Lo testimoniano bene le edicole sacre dedicate al Santo Maradona, la cui parabola di vita fa invidia a quella del figliol prodigo.
Così Fabietto gradualmente si trasforma in Fabio, arrampicandosi sul guscio di un’identità che si fa spazio nel dolore attraverso le passioni: il calcio, che lo ha salvato, e il cinema, di cui non è particolarmente esperto, ma che come le donne, già provoca abbastanza prurito da condurlo ad assistere a piccole rappresentazioni teatrali.
Così entra in contatto col regista Antonio Capuano che lo mette in guardia: “Non ti disunire. Non ti disunire!”. Un consiglio incomprensibile che lascia abbastanza spazio interpretativo da rivelarsi indispensabile.
Il film si chiude con Fabio che prende il treno per Roma, lasciandosi alle spalle la città dei miracoli, senza disunirsi da essa, per andare incontro al futuro.
Ne è prova la pellicola, perché Fabio è Paolo Sorrentino e il film è pregno della sua Napoli, che poi è la stessa per tutti coloro che hanno attraversato gli anni ottanta: i figli del miracolo della mano de Dios.
Le luci si riaccendono e torniamo alla città del nostro tempo, quella in cui piove a dirotto. A volte è necessario prendere distanza da ciò che si ama e addirittura da sé, come ha fatto Paolo Sorrentino, che nella pellicola diventa Fabio.
Separazione che il regista infligge anche al pubblico, facendoci uscire da noi stessi e facendoci sentire Fabietto nelle due ore del film, per ricordarci la differenza della qualità nella distanza: separarsi può essere costruttivo, disunirsi invece, è sempre fatale.
Sara Picardi
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